Daniele Vicari: “Dopo Diaz la sfida del Bianco”

Il regista, in giuria a Pesaro, parla del nuovo progetto, che racconterà una delle più gravi tragedie alpinistiche della storia. "Sarà un film quasi metafisico"


PESARO – Dopo Diaz Don’t Clean Up This Blood, la sconvolgente radiografia della macelleria messicana al G8 di Genova, Daniele Vicari sta per affrontare una sfida forse ancor più ambiziosa e complessa, raccontare una delle più gravi tragedie alpinistiche della storia, il tentativo di scalare il pilone centrale del Frêney, una verticale di 750 metri a ridosso della cima del Monte Bianco. Nel luglio del 1961 Walter Bonatti, insieme ad altri sei alpinisti, due italiani e quattro francesi, tentò la spedizione. Solo in tre tornano a casa: Bonatti, Pierre Mazeaud e Roberto Gallieni. Una tempesta ne uccise quattro su sette. Rimasero a lungo bloccati in quota, sottozero. Bianco, scritto con Massimo Gaudioso, budget sui 6 milioni di euro, coproduzione tra l’italiana Mir e la francese Aeternam, con Rai Cinema e la Valle d’Aosta Film Commission, sarà girato in montagna, in parte sui luoghi reali. Il cast è ancora da definire e la cautela aleggia su questo progetto “perché non è detto che si riesca”, come ci ha spiegato il regista reatino, che abbiamo incontrato alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, dove è in giuria.

Da cosa siete partiti per la narrare questa vicenda di sopravvivenza?
La parte documentale è contenuta nel libro di Marco Albino Ferrari “Freney 1961. Tragedia sul Monte Bianco”, ma c’è stato un grosso lavoro di scrittura sui personaggi e sull’ambiente. Abbiamo scelto cosa raccontare perché non sarà una ricostruzione, non ce ne sarebbe stato bisogno: l’impresa del Freney è stata più volte narrata in libri e documentari.

Cosa la interessava, allora?
La storia di questi sette ragazzi che è anche la storia di un grande fallimento. È un action movie che scava nell’interiorità dei personaggi e chiama in causa sentimenti umani: l’amicizia fraterna, il coraggio, la paura della morte, il dolore.

È un film difficile, forse anche più di Diaz.
Sì, è anche impegnativo finanziariamente e difficile tecnicamente. Potrebbe essere ambientato anche sulla luna, ha qualcosa di astratto, di estremo. L’alta montagna è luogo magico, senza confini, dove la bellezza sublime e l’aspetto terribile convivono.

Ha detto che Bianco sarà quasi un film di fantascienza e ha citato Gravity di Cuarón come possibile modello.

La vicenda si presta a un racconto quasi fantastico, tutte le vicende di montagna hanno qualcosa di metafisico, perché è metafisico portare un corpo umano in un luogo dove non cresce l’erba e dove solo alcuni animali riescono a sopravvivere. E poi più prosaicamente è difficile girare a quell’altitudine, portare un’intera troupe lassù.

Dopo Diaz aveva bisogno di cambiare in qualche modo aria?
Diaz è stata esperienza umana pazzesca, molto formativa anche dal punto di vista tecnologico e lavorativo. È un film irripetibile, un vero e proprio kolossal con 140 attori, diecimila comparse, un set totalmente ricostruito, Genova rifatta a Bucarest. Ma ogni film, anche il più piccolo, ti cambia, se lo fai con passione. Fare un film con tutto se stesso è un po’ come sposarsi, ogni storia amore ti lascia traccia profonda. Diaz ha lasciato un solco dentro di me.

Qui a Pesaro interverrà al convegno sul nuovo cinema ieri e oggi. Che cosa è “nuovo cinema” in questi anni in Italia?

Credo che stiamo realizzando un cinema di ricerca tra i più interessanti del mondo, sia in termini quantitativi, con 600 documentari girati l’anno, sia in termini di qualità. La nostra è una cinematografia che negli ultimi 10/15 anni ha reinventato se stessa con una grande varietà di stili e di approcci. E parlo anche di alcune opere che sono qui in concorso. Ci si muove tra documentario e videoarte, tra documentario e narrazione classica. In questa cinematografia ci sono dei germi di futuro. Nel mondo il cinema è esploso e c’è una ricerca espressiva totalmente libera che contribuirà anche allo sviluppo del cosiddetto mainstream.

Ma il sistema sembra spesso impermeabile a questo cinema di ricerca.
Certo, sono film fatti con grande sacrificio personale. Il mio unico rammarico è infatti che difficilmente si riesce a vivere facendo questo a causa di una difficoltà di visione dell’industria e della politica. Questi film producono cultura, innovazione e futuro ma non economia.

Cosa possiamo fare per cambiare la rotta?

Abbiamo bisogno di una grande innovazione di sistema, alcune di queste esperienze possono portare una rivoluzione dell’industria cinematografica. Basterebbe fare qualcosa, uscire dall’inamovibilità. Nessun settore può sopravvivere senza innovazione.

Eppure la cultura italiana sembra sull’orlo del default. Penso ad esempio alle notizie drammatiche che arrivano dalla Capitale.
Ci dovremmo fare tutti un esame di coscienza. Abbiamo partecipato a un esperimento simile a quello che si fa con gli animali ammaestrati, che vengono abituati a fare cose sempre più improbabili. Ma c’è una responsabilità di tutti dall’ultimo usciere ai ministri, perché si è andati dietro rendite di posizione.

Nonostante questo la salute del cinema italiano è buona.

Anche il cinema più classico ha avuto risultati importanti negli ultimi anni. Nostri film hanno vinto a Berlino, Cannes, Venezia, Roma. I film italiani vincono premi in tutto il mondo, però ci siamo abituati ad abbassare l’asticella. L’Oscar Paolo Sorrentino l’ha conquistato con un film girato all’interno del sistema produttivo italiano eppure molti sono caduti dalle nuvole. Ma io dico: Sorrentino vince premi da sempre, non da quest’anno.

Cristiana Paternò
27 Giugno 2014

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