Filippo Meneghetti: “C’è un amore thriller su quel pianerottolo”

'Due', arrivato alla candidatura al Golden Globe e a rappresentare la Francia nella corsa all’Oscar, esce ora in Italia dal 6 maggio con Teodora


Un italiano, classe 1980, che ha trovato la sua ispirazione in Francia, paese in cui si è trasferito per amore e dove c’è un sistema produttivo che gli ha permesso, sia pure con una certa fatica, di realizzare un film originale come Deux (Due), arrivato alla candidatura al Golden Globe e a rappresentare la Francia nella corsa all’Oscar. Stiamo parlando di Filippo Meneghetti, che ha diretto le magnifiche icone della scena Barbara Sukowa e Martine Chevallier in un thriller sentimentale che inchioda lo spettatore alla poltrona.

Ora esce in sala, dal 6 maggio con Teodora, dopo un percorso festivaliero di tutto rilievo (è stato anche alla Festa di Roma nel 2019), compresi un premio César e un Prix Lumière come Miglior opera prima. Due si apre con le immagini molto sensuali e dolci dell’amore tra due settantenni, Nina e Madeleine. Sono dirimpettaie e si amano in segreto da decenni. Mado è vedova e ha due figli, l’altra, una tedesca giramondo, vive da sola, almeno agli occhi del prossimo. Perché in realtà le due dividono il letto e la vita quotidiana e progettano di vendere tutto per trasferirsi a Roma, dove tanti anni prima si erano conosciute. Accadrà però qualcosa che mette a dura prova il loro amore, che le divide, come nel sogno che apre la narrazione, in cui due bambine giocano a nascondino in un parco alberato. Nella vicenda, da non rivelare perché la tensione è un ingrediente fondamentale, hanno un ruolo importante anche la figlia Anne (Léa Drucker) e una badante sospettosa (Muriel Benazeraf).

Una storia d’amore che ha lo stile e la tensione di un thriller, con segreti e sguardi attraverso uno spioncino e una canzone, Chariot, nella versione italiana di Betty Curtis che fa da catalizzatore di emozioni.

La storia di Nina e Madeleine si poteva prestare al melodramma, invece ho scelto gli strumenti del thriller e della suspense. Non volevo che fosse punitiva per il pubblico, è una vicenda di non detti, di segreti e il thriller funziona proprio così, è un genere che mi piace e l’ho pensata da subito in questi termini con le sceneggiatrici Malysone Bovorasmi e Florence Vignon. Riguardo alla canzone, era importante perché i dialoghi sono in sottrazione, come avviene nella vita, dove non si dicono le cose veramente importanti e per il pubblico francese, che non comprende bene le parole, risultava ancora più misteriosa. 

Fondamentale anche la location, questi due appartamenti gemelli all’ultimo piano di un palazzo.

Il dispositivo architettonico, come lo chiamo io, è il cuore del film. L’idea nasce proprio da lì: da anni volevo raccontare una storia di autocensura e di esclusione, ma non avevo ancora trovato la chiave giusta. Poi, dieci anni fa a Verona, un amico mi raccontò di queste due vedove che vivevano sullo stesso pianerottolo con le porte sempre aperte.

I due appartamenti sono identici eppure così diversi.

L’appartamento di Madeleine è pieno di ricordi di una vita, è talmente caldo che non hai voglia di viverci, e infatti diventa uno spazio di cui essere prigionieri, come abbiamo sperimentato durante il lockdown. L’altro appartamento è arredato solo all’ingresso, poi è quasi vuoto, il frigorifero spento, il letto non utilizzato. Quel vuoto è lo specchio della totale dedizione di Nina all’altra. Il pianerottolo diventa una frontiera e la porta è una metafora dell’esclusione, del limite.

Il film ci mostra anche il dramma di una donna lesbica completamente esclusa dalla possibilità di condividere la vita dell’altra nel corso di una malattia. E’ una discriminazione sconvolgente. Vuole fare un commento sulla legge contro l’omofobia che si sta discutendo in Italia?

Ho già detto quello che dovevo dire sull’argomento facendo il film. Ma io non volevo ‘predicare solo ai convertiti’, come si dice in Francia, volevo che lo spettatore dimenticasse l’età e l’orientamento sessuale delle due protagoniste e si immergesse nel loro dramma. Spero che il film non si faccia chiudere in un’etichetta.

Il punto di vista della figlia è interessante. Si capisce bene che si sente tradita dal silenzio della madre, che ha sempre condotto una doppia vita a sua insaputa.

Una parte del pubblico si identificherà in Anne, che è stato il personaggio più difficile da scrivere e che è risultato così complesso anche grazie al lavoro di Léa Drucker, un’attrice molto raffinata e sottile. Anne non è omofoba, ma appunto gelosa di sua madre, perché anche l’amore filiale si può sentire tradito. Per lei sua madre è stato un modello e scoprire che ama un’altra donna vuol dire scoprire che non le ha mai dato abbastanza fiducia per dirle chi fosse veramente. La sua prima reazione è la rabbia.

Cosa può dirci del personaggio della badante?

Volevamo che non ci fossero vittime nel film, ci piacciono i personaggi moralmente ambigui, tutti noi facciamo cose non condivisibili. La badante è un personaggio di genere che incarna una piccola guerra tra donne.

Nina è straniera, una scelta precisa legata anche alla presenza di un’attrice leggendaria com Barbara Sukowa, musa di Fassbinder e di Margarethe Von Trotta.

Ho sempre voluto che fosse straniera, ancor prima di scegliere Barbara, come lo sono anch’io in Francia. Se sei straniero, le tue scelte diventano più evidenti, se hai un problema non c’è nessuno della tua famiglia ad aiutarti. Volevo che Nina fosse sola.

E come ha scelto Martine Chevallier?

Se Sukowa è una leggenda del cinema indipendente, Martine Chevallier è un mito del palcoscenico, da 34 anni nella Comédie Francaise, ha una carriera incredibile. Queste due attrici dovevano avere il coraggio di raccontare la loro età con onestà, senza essere ritoccate. Viviamo in una società ossessionata dalla giovinezza e dalla perfezione, ci sentiamo tutti a disagio con i nostri corpi perché i modelli non sono plausibili. Io sento la necessità di andare in un’altra direzione, come cittadino, oltre che come regista. È uno dei motivi per cui ho fatto il film. Quando ho parlato con loro, ho detto subito: ‘faremo dei primi piani stretti e sarete poco truccate, ve la sentite?’.  

Hanno aggiunto qualcosa alla scrittura?

Nei 5 o 6 anni in cui ho cercato finanziamenti, ho continuato a incontrarle, separatamente, perché Barbara vive a New York e Martine a Parigi. Frequentandole, ho visto degli aspetti del loro carattere e abbiamo modificato i personaggi, avvicinandoli alle attrici. Mado è un’impostura, tiene il piede in due scarpe, interpreta due ruoli, è molto teatrale. L’altra è dura, a volte violenta… Ma poi i due personaggi si invertono: Madeleine cerca di rompere la recita, mentre Nina finisce per interpretare il ruolo della vicina di casa gentile.

E’ stato un film difficile da mettere in piedi produttivamente?

Tutto il processo è durato sette anni, ma il risultato è un film che instaura un rapporto speciale con il pubblico in tanti paesi del mondo. Gli spettatori mi fermano dopo la proiezione, altri mi scrivono delle lettere. 

Nel film si parla anche di ribaltamento di ruoli tra genitori e figli e di figli che si oppongono alla vita sentimentale dei genitori.

Questo è un tema che è arrivato scrivendo, non pensavo di esplorarlo, lo sintetizzo come ‘la presa del potere dei figli sui genitori’. E’ un coming out ribaltato, perché di solito sono i figli che faticano a dire la verità ai genitori. Qual è il diritto che un figlio ha sul genitore in merito alla libertà e alla sessualità? Ci sono anziani che sono stati trasferiti in un’altra casa di riposo perché stavano vivendo una storia d’amore… Sono storie frequenti. 

Pensa che continuerà a lavorare in Francia?

Non mi riconosco nella definizione di ‘cervello in fuga’, ma in Francia ho più opportunità, anche per il semplice fatto che si producono più film. Però mi farebbe piacere girare in Italia, nella mia lingua.

Cristiana Paternò
04 Maggio 2021

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