Samani su ‘Piccolo corpo’: la maternità e la ricerca del respiro

‘Piccolo corpo’, la maternità come l’acqua di Mare


CANNES – Un’isola, piccolo lembo di terra emersa che confina solo con il mare e guarda all’infinito, nell’inverno del primo Novecento italiano, quello del Nord-Est: questo è il grembo, e il limbo, della nascita senza vita della bambina di Agata (Celeste Cescutti) – attrice esordiente dal volto antico e naturalmente intriso di dolore e determinazione – partorita senza respiro, per questo, secondo la tradizione cattolica, non accettata per il battesimo; nessun nome, nessuna pace per la creatura dall’anima sospesa in eterno, secondo il Credo.  

Solo un miracolo potrebbe dar ossigeno e dignità a questa piccola, ed è un’ascesa, dall’isola alla montagna, quella che la mamma Agata intraprende, tanto verso il cielo, fisico e metaforico, quanto verso quel luogo, un santuario nella Val Dolais, che ha saputo essere deputato a offrire il tempo di un respiro, speranza flebilissima ma appiglio solidissimo per lei: un percorso di disperazione e speranza, in compagnia del solo corpicino della bimba, nascosto in una scatola di legno. Ignara della strada e della neve, che mai aveva visto in vita sua – lei che conosce solo il sapore del sale sulla pelle, che quando esci dall’acqua puoi assaggiare leccandotelo di dosso – Agata si àncora al coraggio, procede verso l’ignoto e viaggia, incontrando la personificazione dell’istinto, della Natura, del bene allo stato puro, Lince (Ondina Quadri), spirito umano selvatico e solitario, dall’identità ibrida, ma esperto del territorio, con cui, tra diffidenza e costruzione del sentimento dell’amicizia, procedono: la creatura dagli occhi di ghiaccio, “di lince appunto”, dapprima le offre aiuto in cambio del misterioso contenuto della scatola. 

Laura, il film restituisce la sensazione di contenere gli stilemi di una favola nera e quelli di una preghiera, il buio e la luce: da cosa è scaturita la storia e, questi due elementi, fiabesco e religioso, sono effettivamente stati ispiratori?

Mi piace molto constatare che possa essere percepito anche come una preghiera, non l’avevo pensato. La genesi del film è fortemente interlacciata al mio cortometraggio La santa che dorme, in cui in parte già c’erano questi temi, sicuramente quello del miracolo, la ribellione al dogma della religione; grazie al corto, poco tempo dopo, un signore friulano mi ha avvicinata e chiesto se fossi a conoscenza dei miracoli di Trava, di cui non sapevo niente, quindi mi è successo un pò quello che succede ad Agata nel film, cioè sono venuta a scoprire di un luogo in cui poteva accadere qualcosa e sono stata a visitarlo, esiste ancora il santuario, è l’unico rimasto nella mia Regione, il Friuli Venezia Giulia, anche se chiaramente ha perso la sua funzione originaria, anche perché ‘il Limbo’ non esiste più dal 2007. Ho iniziato a studiare e ho scoperto che solo in Francia ce n’erano più di 200 di questi luoghi, di cui era ricco tutto l’arco alpino, per l’esercizio di questa pratica molto molto diffusa. È sconvolgente, al contrario, che non siano conosciuti queste prassi: ci sono teologi, storici, antropologi molto specializzati, ma non mi bastava solo studiare; poi, la cosa che m’era rimasta più impressa di tutte era che fossero gli uomini ad affrontare il viaggio, perché lungo, pericoloso, come mostro anche nel film, e quindi io mi sono posta una domanda rispetto alla figura materna, non mi rassegnavo all’idea di immaginarla solo nel letto a sgranare il rosario. E da qui è cominciato tutto. Sì la preghiera, ma soprattutto la favola nera era assolutamente una mia intenzione, perché, per quanto il tema sia macabro, si parla di perdita, qualcosa che appartiene a tutte le persone, e a me piaceva l’idea che fosse una storia che si potesse raccontare anche ad un bambino: basti pensare ai fratelli Grimm, per cui la funzione delle fiabe era anche quella di insegnare in maniera schermata la paura, come la si possa superare, come si coltivi il desiderio e lo fai con storie che non stai vivendo il prima persona, quindi la missione del film era un pò questa. 

Lei sceglie di far salire Agata, dall’isola alla montagna, una forma di ascensione al cielo: sussiste effettivamente questa metafora oppure esattamente perché ha scelto un’isola per la partenza e una cima per l’epilogo?

 Volevo che lei venisse da un posto molto lontano e che l’arrivo non fosse il suo territorio. C’è desiderio di creare un’ascensione, ma secondo me c’è un chiasmo: c’è un’ascensione geografica ma il viaggio di Agata è una discensione a tutti gli effetti. 

Lei, personalmente, è credente? Questo come ha inciso nel concepimento della storia?

 Sì, sono credente ma non sono cattolica: ho avuto un’educazione cattolica ma non sono stata cresciuta come lo è stata Agata, assolutamente; credo molto nelle energie, nel ritorno delle cose, credo nei cuori buoni, tutte cose disseminate nel film, quindi sono più abitata da Fede che da effettiva religione. 

Per il personaggio di Lince, femminile e maschile al contempo, ha scelto un’attrice, Ondina Quadri, e optato per un ruolo purissimo, epidermico, quasi ‘animale’ nel senso più nobile del termine. Come ha pensato, scritto, cercato e poi diretto questo personaggio, che meriterebbe da solo un film?

Agata all’inizio della prima stesura di trattamento viaggiava sola e, a dirla tutta, era un pò noioso: all’inizio abbiamo costruito i due personaggi come Yin e Yang, quindi a contrappunto, quindi se una è l’archetipo femminile, l’altra maschile. Lince rifiuta tutto quello che è l’archetipo femminile, cioè la parte più oscura dell’amore, che è il dolore, quindi se non ami non ti comprometti, scelta che ha fatto anche nel quotidiano, per sopravvivenza. Noi ci siamo chiesti chi potesse essere la persona giusta ad accompagnare Agata in questo viaggio, cosa potesse insegnarle, e viceversa, e il paradosso è stato che nell’aver fatto ricerche storiche abbiamo scoperto che se una donna, al tempo, volesse sopravvivere ed essere indipendente, doveva compiere una scelta, ci siamo resi conto poi di quanto fosse contemporaneo il personaggio. Io so come è stata la genesi del personaggio ma ad oggi non so dire davvero chi sia Lince, non mi interessa inscatolare la figura, è fluida ed è il motivo per cui sopravvive, perché riesce a cambiare, ad evolvere, e non è condannata a scegliere. Sono molto felice di questa strada. Per Ondina, è andata che io cercavo una persona che parlasse il dialetto, cosa che lei non parla: io non uso fare provini su parte, ma preferisco incontrare le persone per un caffè, una passeggiata, e ho capito così che Lince fosse lei.

Non meno complesso il ruolo interpretato da Celeste Cescutti: come l’ha incontrata e poi guidata nel costruire e recitare una mamma orfana del proprio neonato, dilaniata dal dolore ma altrettanto pervasa di speranza?

Lei s’era presentata ad un open casting nel 2017, dovevamo girare un promo, cercavamo una protagonista momentanea: in realtà io m’immaginavo un’Agata molto più fragile, sia emotivamente che fisicamente, molto ansiosa, mentre Celeste è l’esatto opposto; ovvio che lei non sia Agata ma c’è molto di lei nel personaggio: è una persona molto dignitosa, molto timida, molto taciturna. L’incontro con lei mi ha messa in crisi, perché mi sono resa conto che il personaggio non fosse come lo immaginavo prima e Celeste ha davvero portato tantissimo di sé. Non ho usato un metodo, di base il lavoro sulla prossimità tra le persone: a me piace lavorare con persone che mi piacciono, e mi piace lavorare in maniera trasversale, ho bisogno delle persone vicine e che si diventi come uno stormo. 

Il ruolo di Celeste Cescutti è direttamente connesso a quello fortemente simbolico dell’acqua – del liquido amniotico, del lago nei pressi del santuario, del nome della piccola -, in cui la stessa è espressione assoluta di maternità e di libertà. Qual è il valore che le ha attributo, sicuramente da coprotagonista?

Non so rispondere in maniera razionale, ma mi rendo conto che anche ne La santa che dorme l’acqua era determinante: sicuramente è fluida, è un elemento che può cambiare forma, e a pensarci viene utilizzato praticamente in qualunque Religione. Penso sia qualcosa che appartiene più al subconscio che alla mia volontà. Riferendomi alla sequenza del miracolo, noi storicamente sappiamo come funzionasse l’esercizio di questi particolari momenti ma abbiamo scelto di tornare alla rappresentazione di un gesto più primigenio: Gesù nel Vangelo usa la saliva per curare, nel miracolo non abbiamo mai usato il segno della croce né una preghiera, ma viene dato un nome e si gestualizza il segno con la saliva, volevamo restituire un’idea di purezza.  

Il film, potente nella poesia che inonda tutta l’atmosfera e la visione, nobilita inoltre l’uso del dialetto (quasi completamente comprensibile): friulano e veneto sono le lingue di Piccolo Corpo – opera prima in selezione alla Semaine de la Critique e quindi in Concorso per la Camera d’or (premio Opera Prima); dalla nenia su cui s’apre la storia in poi, la scelta di un italiano più pulito, più contemporaneo, sarebbe stata solo barocca patina senza slancio vivo, senza emozione, e anche senza realismo in riferimento al contesto storico. Laura Samani, dunque, sceglie la lingua locale come radice, natale, sociale, sociologica, per cui anche l’effetto musicale del parlato regala spessore narrativo, parimenti a quello della simbologia dell’acqua, tanto del Mare, quanto del ventre materno, così del lago montano, comunque e sempre sinonimo di libertà.     

Piccolo corpo, nella sua interezza, ha comportato 5 anni di lavorazione (dal 2016): è prodotto da Nadia Trevisan e Alberto Fasulo per Nefertiti Film con Rai Cinema, in co-produzione con Francia e Slovenia. 

Nicole Bianchi
10 Luglio 2021

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