Lorenzo Pallotta: “Tra sacro e profano ecco il mio Abruzzo”

Un esordio interessante, Sacro moderno è un film diretto da Lorenzo Pallotta, ed è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma, nella cornice della sezione Alice nella città


Un esordio interessante, Sacro moderno è un film diretto da Lorenzo Pallotta, ed è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma, nella cornice della sezione Alice nella città. Siamo nell’entroterra montano abruzzese, a Intermesoli, in provincia di Teramo. Il giovane Simone, tra esitazioni e nuove consapevolezze, porta avanti tradizioni e custodisce le memorie di una piccola comunità montana che sta scomparendo. Filippo, invece, si allontana, spiritualmente e mentalmente.

Lorenzo Pallotta, giovane regista classe 1992, ci ha raccontato questa storia di un territorio sospeso fra passato e futuro. “Essendo originario di quei paesini lì, sono partito da quello che conoscevo. Ho cercato di raccontare le mie origini e la terra che mi è vicina, che si sta sempre più spopolando. Un ragazzo vive in un paese quasi fantasma, dove sono anche io cresciuto. Volevo attingere alla mia memoria e ai miei ricordi.”

Una realtà comune a molti paesi, soprattutto lungo l’Appennino.

È una situazione attuale, specie in Abruzzo. Una terra selvaggia, da una parte molto affascinante perché incontaminata, ma dall’altra afflitta da una mancanza dell’essere umano.

C’è un forte senso di ritualità. In che modo è inscindibile da quella realtà?

Volevamo fare una fotografia di quello che sta succedendo, con l’aspetto ritualistico e le tradizioni che stanno scomparendo, insieme alle persone e ai culti. Una cosa che fin da piccolo mi ha sempre affascinato. L’Italia poi ha la particolarità di avere tanta storia, oltre alla mescolanza dell’elemento sacrale e quello pagano. È interessante vedere come i riti si sono trasformati nel tempo.

Raccontate due persone che rispondo in maniera opposta alla domanda: restare o abbandonare?

Volevamo porre i ragazzi di fronte a questo bivio, in cui il mondo esterno si vede molto poco, ma tocca profondamente l’anima del ragazzo, influendo sulla sua decisione di andare via o rimanere.

Che lavoro avete fatto sul sonoro, con in primo piano i rumori della natura?

Abbiamo lavorato già in presa diretta strutturando le riprese con la giusta spazialità, quasi a 360°. Avevamo in mente di insistere sui movimenti, su delle panoramiche. Anche il sonoro richiedeva quindi un lavoro attento sulla presa diretta, sistemando molti microfoni, per raccogliere più materiale possibile. Poi ovviamente abbiamo integrato in post-produzione. Oltre alla nebbia, anche una stratificazione di suoni e significati ci ha aiutato a rappresentare la magia della natura.

C’è un rapporto molto tenero fra le generazioni, nonostante l’asprezza della terra in cui vivono.

Mi sembra sia un film fatto di ruoli, all’interno della comunità, della famiglia, delle relazioni. È una piramide, proprio come l’aspetto gerarchico in vigore sul set di un film. La violenza e il potere che si genera all’interno di questa piccola famiglia, si ritrova poi anche in una metropoli, solo più nascosta. Le dinamiche sono le stesse, universali.

Aveva in mente alcuni registi in particolare, come fonte di ispirazione?

Io e il direttore della fotografia, Andrea Benjamin Manenti, siamo cresciuti con la stessa idea di cinema, partendo con una grande ammirazione per i nostri cineasti del neorealismo. Oltre alla nuova idea di ibridazione fra finzione e realtà, ma anche i Dardenne o Frammartino. A livello fotografico, partiamo anche da maestri dell’est Europa come Béla Tarr e Tarkovskji.

A proposito di cinema del reale, come ha scelto gli attori?

Siamo partiti dalla realtà, costruendo un personaggio molto complesso come quello di Filippo Lanci, l’adulto, che contrasta con i due ragazzi, che ho cercato nelle montagne. Ho trovato Simone e Mattia Caruso, che hanno un volto antico, ma il lavoro con loro è stato quasi documentaristico, di osservazione. Due approcci diversi, due registri che sintetizzano questa dicotomia: sacro e profano. Non abbiamo scritto una sceneggiatura, ma un trattamento, come si fa nei documentari, costruendo poi le scene quasi giorno per giorno. Ci siamo tenuti aperti a possibilità e colpi di scena. Due figure alternate che si incastrano, in un gioco fra mondo interno ed esterno, con la natura e questi elementi simbolici che portano avanti la narrazione.

Mauro Donzelli
22 Ottobre 2021

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