Renate Reinsve: “Mi sono ispirata a Chalamet”

La persona peggiore del mondo di Joachim Trier, in concorso al Festival di Cannes e ora in sala dal 18 novembre con Teodora, racconta l'evoluzione di una giovane donna. Protagonista Renate Reinsve


Chi non si è sentito almeno una volta la “persona peggiore del mondo”, nel lasciare un amore per seguire la propria strada, per quanto tortuosa e apparentemente incoerente? Si intitola proprio così, La persona peggiore del mondo, il film di Joachim Trier, in sala dal 18 novembre con Teodora: dodici capitoli, più un prologo e un epilogo, per raccontare l’evoluzione di una personalità femminile, dall’indecisione post adolescenziale alla sicurezza di una giovane donna che non ha più bisogno di uno sguardo maschile per definirsi, anzi, che assume il proprio sguardo come centro di gravità. Il tutto in una commedia romantica divertente e spiazzante, ma che sa attraversare anche momenti molto drammatici. Protagonista Renate Reinsve, che per questo ruolo ha vinto il premio per l’interpretazione a Cannes: attrice di teatro, ha esordito al cinema proprio con Trier nel 2011 con Oslo, 31 August, e il regista norvegese ha scritto questo nuovo film, insieme a Eskil Vogt, proprio pensando a lei. 

Julie è una ragazza piena di talenti, che passa dagli studi di medicina a quelli di psicologia, si dedica poi alla fotografia, ma nel frattempo si innamora di Aksel (Anders Danielsen Lie), un fumettista 45enne che la ama molto ma che tende a sovrastarla e metterla in ombra. Finché una sera, a una festa di matrimonio a cui si è imbucata, incontra il coetaneo Eivind (Herbert Nordrum) e rimette in discussione la sua vita. Il film affronta tanti temi, dalla maternità come scelta non obbligatoria al #MeToo. “Ciascuno di noi – dice Reinsve – si identifica in alcuni momenti del film o in certe situazioni in cui si trova Julie. Ognuno ci vede un po’ quello che vuole e questo dipende sia dal sesso che, ovviamente, dall’età di chi guarda”. Il significato del titolo? “È come Julie sente se stessa e come crede di essere a volte. Una cosa che capita prima o poi a tutti”. Secondo Variety il film ha buone chance di concorrere all’Oscar per il Miglior film internazionale ma anche l’attrice potrebbe entrare in cinquina.

Quanto è difficile trovare la propria vocazione oggi per una giovane donna?

Il film parla proprio di questo e la sua forza è nel non dare risposte ma limitarsi a porre delle domande. Oggi è più facile che mai cambiare professione, indirizzo di studi o partner, dunque siamo soggetti al paradosso della scelta. Una definizione che viene dal mondo del business e che rende bene l’idea: siccome c’è troppa scelta, diventa difficile scegliere. Non è un problema generazionale perché anche mia nonna ha cambiato lavoro e fidanzato. Inoltre siamo sommersi di notizie, i social sono diventati un marketplace dove ognuno di noi si mette in vendita e si costruisce un brand. Quindi sì, è complicato trovare se stessi.

Julie arriva a scoprire la sua libertà.

All’inizio del film Julie si definisce attraverso gli uomini, ha bisogno di un uomo per sapere chi è. Quando lascia Axel, anche se non riesce a spiegarlo a parole, è perché sente che la sua identità proviene da lui, in Eivind scorge qualcosa di più vicino a lei, più libero, ma non è ancora una soluzione. La sua solitudine per me è un happy ending. Julie vive nel caos e si sente forte perché riesce a stare dentro le emozioni, mentre Axel è molto razionale.

Nel film c’è ironia e autoironia a dosi massicce.

La nostra è una generazione che ha paura dell’intimità, di essere vulnerabile. Nell’ironia troviamo una difesa. Ma questo può creare distanza tra le persone. Siamo andati oltre l’ideologia, non crediamo più a nessuno, neanche ai governi, perché siamo sommersi di informazioni. Io ad esempio sono una che si fa domande su tutto.

Si sente condizionata dagli stereotipi sulla figura femminile? 

Non mi sento un’attrice donna e spesso sono stata ispirata da attori uomini. Per questo ruolo, per esempio, ho pensato a Timothée Chalamet in Chiamami col tuo nome. A me interessa l’essere umano anche se ovviamente sono di genere femminile. Mi chiedo spesso cosa farebbe il mio personaggio se fosse un maschio. È vero che ci sono tanti stereotipi nel cinema ma le cose stanno cambiando, nel cinema norvegese ci sono personaggi femminili forti. 

E’ interessante nel film l’approccio non dogmatico su temi come il #MeToo o il post femminismo.

Sul set, quando il suo professore di università ci prova con lei, nessuno rideva perché ormai non si può più scherzare su queste cose, è diventato un argomento tabù. Mi piace come Axel parla del fatto che l’arte deve poter tirare fuori anche l’aspetto peggiore, deve essere libera, violenta e anche brutta, a volte. Anche nella scena del dialogo radiofonico con le femministe, vengono presentati i due punti di vista e nessuno viene sminuito. È una bella scena, un modo molto intelligente di parlare dell’argomento.

Ha scritto lei l’articolo sul Sesso orale ai tempi del #MeToo che Julie pubblica su un giornale?

No, è stato lo sceneggiatore, Eskil Vogt, ci ha lavorato a lungo, tanto è vero che nella sceneggiatura c’era un buco e il testo è arrivato solo dopo. Eskil è una persona intelligente, un uomo di poche parole, molto profondo. Quell’articolo è totalmente in linea con il personaggio di Julie che è stato costruito davvero in modo collettivo da tutti noi. Ognuno aveva le sue scene preferite. 

La sua qual è?

La fine del film, perché lì Julie è forte, rilassata. Finalmente si accetta, cosa che prima non avveniva. 

Che impatto ha avuto sulla sua vita il premio a Cannes?

Sono ancora in confusione, è stata una cosa pazzesca. Io faccio teatro, niente fronzoli e lussi, tanto duro lavoro, dalla mattina alla notte. E’ una cosa che fai proprio perché ti piace ed è molto faticosa. Non ci rinuncerò. Voglio mantenere i miei valori, ovvero puntare su buone sceneggiature e bravi registi. Certo che dopo Cannes sono privilegiata perché tante persone di valore mi cercano. Ci sono alcuni buoni progetti, ma vedremo. 

Herbert Nordrum, che interpreta Eivind, era un suo compagno di accademia.

Sì, era difficile trovare un bravo attore che avesse una chimica con me. Con Herbert ci conoscevamo dai tempi della scuola, anche lui è un attore di teatro. E’ molto generoso, non ti lascia mai da sola, anche quando la macchina da presa non lo inquadra e questo non è da tutti. Lui sa come valorizzare il suo partner in scena, come si fa a teatro.  

Cristiana Paternò
08 Novembre 2021

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