Simon Messner, storia di famiglia e un grande progetto Oltreoceano

Il figlio di Reinhold, al Trento FF con "Traditional Alpinism", doc sulla storia alpinistica di famiglia, e l'auspicio di una produzione americana per un film di finzione sulla montagna


TRENTO – 1970. La spedizione punta agli 8.125 del Nanga Parbat: Reinhold Messner – papà di Simon – partecipa, rischiando la vita e perdendo lì suo fratello Günther: nel tempo presente, lo stesso figlio, nell’ambito di una piccola spedizione sulle medesime vette del Pakistan, gira intorno, sopra, addosso a quelle stesse verticalità che hanno scritto la storia della sua famiglia, un viaggio drammatico e memorabile quello di ormai mezzo secolo fa.

Traditional Alpinism – Experiences cannot be inherited è il documentario che Simon Messner, figlio del famoso alpinista, presente nella sezione Alp&ism del Trento FF. 

Qual è la necessità che, da alpinista e da erede della Storia di queste imprese, le ha fatto sentire il bisogno del cinema? Cosa cerca con il cinema nella montagna?

Sono soprattutto un alpinista, e a un certo punto volevo raccontarlo, in particolare questa storia, una storia di famiglia, e quindi anche mia in senso intimo. Da quando sono bambino questa vicenda è sempre stata presente nel mio ricordo famigliare e poterla raccontare era un’opportunità. È una storia di Reinhold, mio padre, ma anche mia, in quanto nuova generazione dell’alpinismo e quella forma di comunicazione che osserviamo oggi con i social a me non rende felice, così provo a dire che esista un’alternativa all’essere il più veloce, il più spettacolare. La base dell’alpinismo è raccogliere delle emozioni e il cinema mi aiuta sì con le immagini ma soprattutto con la voce, che è uno strumento che permette il racconto. 

Nel film tratta la vita, quella di un’impresa che dimostra la grandezza dell’esistenza, ma affronta anche la morte, non teorica, ma pratica, quella di suo zio, e quella rischiata da suo papà. Come ha pensato di raccontarla, che riflessioni ha fatto prima di scegliere di non nascondere questo aspetto dell’esistenza dell’alpinista?

Ogni alpinista che dice: ‘io non ho paura’ sta mentendo. Ognuno ha paura, anche gli alpinisti più capaci, forse non Reinhold… ma tutti gli altri di certo. La paura c’è e così la morte: se vai in montagna per anni anche la morte è una possibilità, fa parte dell’alpinismo e non voglio nasconderlo, conosco persone che hanno perso la vita in montagna. È molto molto pesante se un amico perde la vita, ma fa parte della montagna e per questo anche del mio film. Il cinema mi dà una possibilità perché è uno strumento efficace per comunicare questa paura, per dimostrare la consapevolezza e farla arrivare al pubblico. 

Per quest’ultimo tema – e non solo – credo si sia confrontato con suo padre, infatti il sottotitolo del suo film è ‘le esperienze si ereditano’: come è stata la collaborazione tra voi?

Lui è dell’idea che se io voglio realizzare qualcosa devo essere libero di provare a farla, ha fatto qualche considerazione ma poi non è entrato nel merito. Mi ha detto che c’era del materiale video girato, che se avessi voluto l’avrei potuto usare: per noi due è molto importante restituire sempre la verità di quello che si vede della montagna, quindi non mi piace girare in maniera sensazionalistica o con il telefonino, volevo fare un cinema reale. 

Pensa che il documentario sia più funzionale a raccontare la vita di montagna, oppure ha mai pensato di realizzare un film di completa finzione?

Personalmente mi piace molto il documentario, mi sembra dia limiti meno rigidi entro cui stare, ma diciamo che c’è in progetto un film di finzione. Reinhold aveva scritto un soggetto di una pagina, il progetto è aperto ormai da qualche anno: con gli americani, si pensa a una storia con attori reali, ambientata in una famosa montagna mai scalata; adesso esiste un copione di oltre 140 pagine, certamente comporta un budget che per noi non è affrontabile, ma speriamo che la produzione possa procedere. Il mio compito è quello di fare da collante tra chi scrive e la messa in scena di qualcosa di reale, su questo insito perché è un aspetto a cui sia Reinhold che io teniamo sempre molto: fa ridere guardare scene in cui gli alpinisti si lanciano nel vuoto con le attrezzature e non gli succede niente, ma il pubblico che non è esperto finisce per credere. 

Girare un film comporta sempre degli imprevisti: girare in alta quota forse anche di più. C’è qualche aneddoto particolare o curioso delle riprese di questo film?

 Sì, in particolare in una scena in cui io indossavo abiti d’epoca e ho perso pezzi qua e là in scalata, ma Reinhold mi ha detto ‘non preoccuparti’ e a mani nude, senza corde né nulla, ha recuperato tutto, sono davvero rimasto colpito da lui. Però è il meteo l’incognita sempre più grande quando si gira, può cambiarti un piano o rendere comico/drammatico un momento, la luce sale o scende come non avevi previsto e tutto può modificare all’improvviso. 

C’è del cinema che suo padre e lei ammirate allo stesso modo, che guardate insieme?

 Sì, Touching the Void (La morte sospesa, 2003), che racconta di due scalatori, i primi ad arrivare sulla vetta della Siola Grande nelle Ande peruviane. Ma nella discesa una tempesta minaccia le loro vite. Questa è un tipo di storia a cui Reinhold e io guardiamo come esempio per il cinema.  

Nicole Bianchi
01 Maggio 2022

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