Riccardo Giagni: “Quel canto armeno per Marco Bellocchio”

A Carloforte, al Festival Creuza de Ma', abbiamo intervistato Riccardo Giagni, autore delle musiche del documentario di Roland Sejko La macchina delle immagini di Alfredo C.


CARLOFORTE – È uno dei momenti clou del Festival Creuza de Ma’, rassegna di musica per il cinema unica nel panorama italiano, la proiezione del documentario Luce Cinecittà La macchina delle immagini di Alfredo C. di Roland Sejko. Il regista, insieme al montatore Luca Onorati e all’autore delle musiche Riccardo Giagni, hanno incontrato gli allievi del Campus CSC. Cinecittà News ha intervistato Giagni, musicologo e compositore, autore per Sabina Guzzanti e Mimmo Calopresti, ma soprattutto per Marco Bellocchio. E già alla seconda collaborazione con Sejko.

Insieme avete fatto Come vincere la guerra nel 2018.

Sì, abbiamo iniziato a collaborare con quel film sulla Prima guerra mondiale. Lì ho lavorato soprattutto dal punto di vista del mio repertorio personale, abbiamo selezionato con Roland e Luca Onorati una colonna affascinante arricchita anche da brani di repertorio storico trovati dal regista. Sejko è un regista di straordinaria sensibilità, un autore che può raccontare la Storia dell’Italia con un occhio differente, essendo albanese di origini, non condizionato dalla nostra formazione e dai nostri pregiudizi storici, ha un occhio esterno e uno sguardo molto originale.

Questo si ripete e si amplifica nella Macchina delle immagini di Alfredo C.

In questo documentario si parla di una storia in parte condivisa, tra Italia e Albania, e Roland si trova su un crinale che abbiamo cercato in un certo senso di assecondare e approfondire con le musiche in maniera in parte subliminare e nascosta.

In che modo?

Ho pensato di creare un dualismo tra due strumenti: il clarinetto che è lo strumento principe della musica popolare albanese e il violoncello legato alla tradizione della musica classica europea e italiana. La relazione suggerisce un dualismo di punti di vista, inoltre sono due strumenti vicini all’emissione della voce umana e sollecitano corde che riportano all’interiorità degli ascoltatori.

Avete una collaborazione molto efficace.

Lavoriamo con tempi molto lunghi per definire un affresco sonoro che contribuisce a potenziare alcune immagini. Le musiche qui sono vicine al suono della colonna effetti, come fossero musiche rumore che aiutano a definire il mondo del film anche dal punto di vista della relazione con la realtà che viene mostrata.

Lei ha lavorato molto con il documentario, anche con suo fratello Gianfranco Giagni. Intravede delle differenze sostanziali dal punto di vista del musicista?

Dipende molto dal tipo di documentario e di fiction. Per La macchina delle immagini, tra l’altro, ho difficoltà a parlare di documentario tout court, perché c’è una messinscena del personaggio accanto al lavoro con i materiali di repertorio. In un film di finzione – per esempio con Marco Bellocchio, mentre il discorso è diverso per La fabbrica dei tedeschi di Mimmo Calopresti, che di nuovo si muove tra finzione e documento – c’è una relazione con la drammaturgia che implica scelte musicali che possono avere un valore autonomo, facendo della musica uno dei personaggi del film. Anche nel film di finzione facciamo una riflessione sul tempo e sul luogo dell’azione. La musica ci trasferisce nelle epoche raccontate. Può essere consonante oppure anche in contraddizione con il luogo e il tempo in cui ambientiamo la storia. Penso a Sofia Coppola nel film su Maria Antonietta che in una messinscena aderente ai canoni del film in costume ha utilizzato heavy metal e rock.

Come Susanna Nicchiarelli in Miss Marx.

Esattamente. In questi anni ci sono molti esempi di clash tra epoche attraverso la musica. Nel film di Wilma Labate Quei due, girato a Cinecittà con Silvia D’Amico e Simone Liberati, ci sono alcuni momenti in cui la musica esce totalmente dall’epoca storica che raccontiamo, che è quella di Galeazzo Ciano e di Edda Mussolini, e ci porta in un altro mondo, più vicino al blues e al rock con un effetto di straniamento interessante. I registi più sensibili evitano la scelta storica filologica. Non è una novità dei nostri tempi. Accadeva anche in Notte e nebbia di Alain Resnais (1956) dove si interpella il campo di concentramento e il nazismo mentre con la musica andiamo a esplorare un mondo completamente differente. Il documentario è oggi, forse, più interessante del film di finzione perché concede una possibilità di inventare che va oltre i cliché.

Parliamo del sodalizio con Marco Bellocchio, molto importante, con tre film: L’ora di religione, Buongiorno notte e Il regista di matrimoni.

Abbiamo fatto questi tre film e prima ancora due per la televisione, Sogni infranti e La religione della storia, che è un film di montaggio senza parole in cui Bellocchio creava una sua visione del rito nella Storia, entrando in certi argomenti che lo porteranno poi a L’ora di religione. Qui la lavorazione è avvenuta in medias res perché Carlo Crivelli non se la sentiva di fare quel film e io ho preso in mano il progetto da un certo punto.

Come lavora Bellocchio con l’autore delle musiche?

Dà le sceneggiature ai compositori prima di girare e poi sul set cambia moltissimo, anche lavorando con gli attori. Nella scena della festa, di taglio felliniano, con personaggi di affaristi, cardinali, monache, donne orientali, massoni, aveva pensato a una suora filippina che cantasse l’Ave Maria di Schubert. Mi sembrava non avesse sufficiente potenziale in una scena scoppiata ed eccentrica, dove il canto doveva magnetizzare tutti i presenti. Così ho trovato un canto armeno – per motivi personali sono legato a quel mondo – che è un richiamo di una donna verso il suo uomo, un pastore. Questa cosa a Marco è piaciuta enormemente. Il testo, che non viene sottotitolato e che quindi non è comprensibile allo spettatore, ha creato un magnetismo misterioso e anche la cantante, non professionista, era una donna molto alta, vestita come un gran dama dell’opera, aveva un forte impatto.

Bellocchio ha una cultura musicale legata al melodramma.

E’ vero, va dal melodramma verdiano alla grande canzone sociale e politica degli anni ’50. Questi elementi gli permettono di avvicinarsi ad altre esperienze musicali con grande curiosità. Chiede un tempo lungo per il missaggio audio. La parola chiave, durante i missaggi, è “leggermente”. Per lui significa trovare quel gradiente che arriva in maniera sottile all’obiettivo. Suggerisce così un’attenzione particolare alla parola, al suono o alla musica.

Lei come intende l’integrazione tra musica e suoni?

Ogni compositore oggi è sound designer, ma io lo sono stato in modo particolare. Il suono delle voci e quello dell’ambiente è in relazione con la musica, specie oggi con il dettaglio che si può raggiungere nella registrazione. I musicisti della generazione precedente non la vedevano così, ricordo ad esempio il disappunto di Ennio Morricone per una scena di Malèna in cui Tornatore aveva mantenuto i suoni del tumulto della folla, ma oggi un regista non può fare a meno del suono. Io vengo dalla discografia leggera, sono arrivato al cinema tardissimo, nel 2002, e sono stato più spregiudicato nell’usare molto sound designing. Ci vogliono orecchie aperte da parte dei registi. C’è necessità di svecchiare e ricordare che il film è non solo immagine ma anche suono.

Lei fa parte del direttivo di ACMF, l’associazione dei compositori di musica per film. Quali sono le vostre richieste?

Siamo attivi su moltissimi aspetti, anche sindacali, per esempio sui contratti con i produttori e gli editori. C’è bisogno di protezione per i giovani autori. Poi c’è un lavoro di promozione culturale, il creare una coscienza diversa che coinvolge il rapporto coi registi e coi produttori per far capire che il musicista è uno dei quattro autori del film. Perché all’interno dell’associazione dei 100autori non ci siamo anche noi insieme a sceneggiatori e registi? Per risolvere tutte queste contraddizioni – nei premi, nell’attività promozionale, nello spazio che i giornali non ci danno – è importante un’attività culturale che noi facciamo con le master class, l’insegnamento in conservatorio, nelle università e scuole private. Questo può sviluppare una coscienza maggiore, specie per i giovani musicisti. Nicola Piovani è molto pessimista rispetto al futuro di questo lavoro, forse lo dice provocatoriamente, però è vero che oggi è molto facile per un montatore crearsi una playlist per poi chiedere ai produttori di liquidare i diritti, dimenticando l’apporto che un compositore di musica originale può dare.

In questo senso un Festival come Creuza de Ma’ è fondamentale perché sviluppa la consapevolezza nei giovani.

È stata un’intuizione straordinaria di Gianfranco Cabiddu, che è regista ma anche musicista, fondare questo festival. Mi ha coinvolto da subito, poi con ACMF e con il Centro Sperimentale si è creato un rapporto speciale. Chiacchierare con i giovani è un’occasione importante anche per noi. Nel festival c’è un aspetto non solo didattico, ma anche di promozione dell’anima collettiva del lavoro cinematografico.

Cristiana Paternò
22 Luglio 2022

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