Ricky Tognazzi: “Cinecittà, il mio album di famiglia con papà Ugo”

Il primogenito di Ugo Tognazzi ospite al Saturnia Film Festival, che onora il grande artista, nell’anno del centenario dalla sua nascita: il figlio lo racconta.


SATURNIA – Ricky Tognazzi ha scelto il cinema per celebrare il centenario dalla nascita del suo papà, Ugo, nato a Cremona il 23 marzo del 1922: nell’anno di questo secolare anniversario, anche il Saturnia Film Festival lo onora e lo celebra. 

Ricky, La voglia matta di vivere è il film che ha dedicato a suo papà per questa ricorrenza: racconta il genio, il padre distratto ma presente, un uomo di fascino: chi era Ugo papà – soprattutto per lei, primogenito – e Ugo papà-artista?

È un confine – quello tra la fantasia e la realtà, quello tra i suoi ruoli, il suo essere attore, sempre al centro dell’attenzione, nella vita e al cinema – che non è facile da delineare; lui era come uno di quegli artigiani che portano a casa il proprio lavoro: portava a casa la giornata trascorsa, il film che stava girando, lui raccontava, noi ascoltavamo e spesso ci chiedeva anche un’opinione. E, al contrario, noi lo seguivamo sul suo luogo di lavoro, sul set, infatti esistono scene in cui compaio io, o Gianmarco: era un suo modo per esprimere il suo orgoglio per noi, era molto tenero. 

L’uomo-Ugo quando e in che modo manifestava il suo senso di responsabilità?

Io sono stato fortunato perché essendo il primogenito, anche se figlio di separati ante litteram, per senso di colpa – o di responsabilità – mi ha sempre dedicato molto spazio: le vacanze erano per me, o quando mia madre mi accompagnava a Roma e magari lui stava vivendo una storia d’amore con un’altra donna, come la mamma di Thomas o con Franca (Bettoja, mamma dei figli Maria Sole e Gianmarco), lui però quelle vacanze le ritagliava per me. Quindi, io sono cresciuto vedendolo poco ma molto intensamente: forse, dei quattro figli, sono stato quello che ha avuto più fortuna da questo punto di vista, però, nonostante fosse un padre distratto, che brillava per la sua assenza, io l’ho sempre sentito vicino, molto. 

Il titolo La voglia matta di vivere è carico di energia vitale, ma il suo papà ha vissuto anche la depressione – tema che di recente anche l’attrice Matilda De Angelis ha portato alla luce con un post via social. Ecco, qual era la lettura che Ugo dava di questo male oscuro, come lo affrontava, come lo rendeva compatibile con il suo lato esplosivo e voi, come figli, cosa avete imparato di vostro papà di questa esperienza umana?

È arrivata come un fulmine a ciel sereno la malattia. Papà non si era mai espresso in termini di malinconia, di tristezza: sì, forse la malinconia faceva parte del suo modulo espressivo – lui faceva molto ridere ma conservava negli occhi uno sguardo malin-comico -, giocava la corda di certi personaggi patetici, che soffrivano, come ne La tragedia di un uomo ridicolo, mischiando tragedia a essere un po’ clowneschi, buffi; però, la malattia è arrivata proprio addosso così… e a tutti, ne abbiamo piuttosto sofferto, ne siamo rimasti scioccati; lui non ha tentato di conviverci, ma ne è stato investito, da una malattia che l’ha turbato profondamente, che non comprendeva: anche gli altri difficilmente riescono a capire la depressione, viene spesso trattata in modo superficiale, perché non si capisce, ma è un male oscuro che divora. Credo che l’unica persona che l’abbia compreso fino in fondo sia stata Simona (Izzo), che conosce quel tipo di male interiore, perché lei va a fasi: è molto euforica, espressiva, creativa e poi s’intervalla a momenti più cupi, più tristi. Lei è riuscita davvero a stargli vicino, ad assecondarlo, a non farlo sentire in colpa. Però lui ha continuato a combattere, andava sul set, doveva recitare: faceva le cose, ci credeva meno, ma combatteva per migliorarle, quella sua voglia di vivere, di far bene, l’ha sempre portata avanti anche nei momenti di cupezza. Invece, non sapevo della denuncia pubblica di Matilda: certo, vedendola è vero che si coglie in lei, tra le sfumature che la rendono anche un’attrice intensa, un retropensiero, uno sguardo che nasconde una malinconia interna. 

Suo papà è un’icona del cinema ma dapprima è figlio di Cremona, città in cui si narra avrebbe voluto girare il suo primo film da regista, Il mantenuto (1961) – o forse Il magnifico cornuto (di Pietrangeli, ’64) -, cosa pare ‘non permessa’ per il falso perbenismo borghese, spesso tipico della provincia: cosa è leggenda e cosa verità e qual era il suo rapporto con le radici, con la provincia soprattutto?

Questo racconto del debutto non lo conosco ma è credibile, veritiero, credibilissimo: Cremona è la tipica provincia italiana, con le sue regole, i suoi perbenismi, con la sua incapacità di essere contemporanea a un personaggio come mio padre che è stato sempre dirompente, sfrontato, anticonformista, che in qualche modo è diventato attore anche per sfuggire alla provincia; detto questo, la provincia gli piaceva, anche come contenitore di storie, come microcosmo, come globo di umori espressi e nascosti con quel misto di pudore e ipocrisia. La provincia italiana è stata materia straordinaria per la Commedia all’italiana, se pensiamo ai film di Germi, ai film di papà tratti dai romanzi di Piero Chiara: la provincia è tematica, un piccolo mondo un po’ ipocrita, un po’ falso, però anche detonatore di umori, amore, vendette, insomma è un bel tema. 

Ugo era simbolo del cinema, come simbolo di questa Arte lo sono alcuni luoghi, tra quelli eccellenti Cinecittà: ha un ricordo di lui – o di voi due insieme – connesso proprio alla Fabbrica dei Sogni?

Cinecittà un luogo della mia infanzia: sono stato spesso a Cinecittà da ragazzino, seguendo papà sul set, per cui ho ricordi della pineta meravigliosa, dei pomeriggi passati sul ciglio del marciapiede a schiacciare i pinoli e riempirmi le mani di nero e di quei profumi. E poi i teatri magnifici! Sono cresciuto a Cinecittà, ho debuttato lì come regista, Piccoli equivoci (1989) infatti l’ho girato lì, ma anche La famiglia con Ettore Scola al Teatro 5, e anche Arrivederci e grazie (di Giorgio Capitani, 1988), uno degli ultimi film fatti insieme a papà. Per me, Cinecittà non è solo un teatro di posa, è veramente il mio album di famiglia con papà. È un luogo che ricordo con amore. 

È sdoganato il rapporto di suo papà con la cucina, qualcosa che forse era anche connesso al suo farsi chiamare ‘il matriarca’?

È un’invenzione poetica di Simona (Izzo) quest’ultima, ma Ugo sì, di fatto era un matriarca: il fatto di non poter allattare, di non poter dar da mangiare, lo aveva sostituito con la cucina: lui amava far da mangiare per le sue donne, le sue mogli, tentava di avvicinarsi al gusto delle persone che aveva vicino. Il convivio era un luogo sacro che lui voleva fosse rispettato perché posto di incontro, di scambio di idee: lui diceva che la cucina aveva sostituito l’emozione che gli dava il teatro, e che purtroppo il cinema non gli dava più, perché lì mancava l’emozione dell’applauso a scena aperta. 

Pensando al cinema italiano contemporaneo, con che autori pensa avrebbe potuto amar lavorare Ugo: grandi nomi, debuttanti, e per quali tipi di storie?

Papà ha avuto una carriera anticonformista, se da una parte ha privilegiato i film mainstream di Risi o Monicelli, ha sempre ambito all’autorialità, quindi a fare film con Bertolucci, con i Taviani, con Pupi Avati, o con giovani esordienti che lo incuriosivano perché si presentavano con storie bizzarre e moderne: penso al suo debutto con Ferreri, Una storia moderna – L’ape regina (1963); e, oggi come oggi, avrebbe ambito a lavorare con Martone, con Sorrentino, però anche con registi come Virzì che hanno portato avanti la tradizione della Commedia all’italiana, ma avrebbe tenuto un occhio aperto anche verso gli esordienti, infatti una delle ultime cose che ha recitato è stato un film fatto per la tesi di laurea di un allievo del Centro Sperimentale che gli aveva chiesto se potesse interpretare un ruolo e lui ci è andato molto volentieri, un atto generoso ma anche curioso, fatto per la sua voglia di mettersi sempre in gioco.  

Nicole Bianchi
31 Luglio 2022

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