Mario Canale: “i miei magnifici 4, carte assorbenti della realtà”

Il documentario di Mario Canale I magnifici 4 della risata, ripercorre le carriere di quattro grandi artisti Roberto Benigni, Francesco Nuti, Massimo Troisi e Carlo Verdone, artefici di una vera e pro


Gli anni ’80 sono stati un periodo fondamentale nella storia del cinema italiano, in particolare quello comico. Fondamentale, in tal senso, il lavoro di quattro monumentali artisti Roberto Benigni, Francesco Nuti, Massimo Troisi e Carlo Verdone, che con il loro enorme talento hanno rivoluzionato il modo di fare e pensare il cinema comico nel nostro paese. Sono proprio loro i protagonisti di I magnifici 4 della risata, il film documentario scritto e diretto da Mario Canale che è stato presentato alla 17ma Festa del Cinema di Roma.

Prodotto da 3d produzioni e Luce Cinecittà in collaborazione con Rai Documentari, il film raccoglie decine di immagini d’archivi, backstage, spezzoni televisivi, interviste dell’epoca alternandoli alle voci di commentatori contemporanei, esperti, amici e collaboratori storici dei protagonisti: Giovanni Veronesi, Marco Giusti, Claudia Gerini e tanti altri. A guidare la narrazione, con degli inserti comici di primo livello, è l’attrice Emanuela Fanelli.

Qui di seguito, l’intervista al regista Mario Canale.

Da dove nasce l’idea di questo documentario, perché ha scelto proprio questi quattro comici?

  Era un’idea che avevo da diverso tempo, pensavo che sarebbe stato interessante in un periodo, in cui il cinema ha così tanta difficoltà nella sale, raccontare uno dei periodi che sono tra i più felici della storia del cinema italiano. Ce n’era un altro, Nanni Moretti, che faceva però una comicità molto più vicina alla satira politica. Io ho conosciuto Roberto Benigni negli anni ’70 per i suoi lavori teatrali e in seguito ho lavorato con tutti e quattro, non come giornalista, ma proprio professionalmente perché facevo i backstage, che ai tempi si chiamavano speciali. Quel tipo di comicità era una cosa che mi è sempre interessata.

Nel documentario di parla di una sorta di nuovo paradigma produttivo. 

Quando è uscito il primo di quei grandi successi, Ricomincio da tre, è scattato nei produttori l’idea che ci fosse un artista che facesse attore, regista, sceneggiatore e produttore. Era una manna dal cielo, pagavi uno e prendevi quattro. Certo le paghe erano molto alte, ma era tutto più semplice. Ha creato una sorta di piccolo impero dei comici.

Perché ha scelta proprio Emanuela Fanelli come presentatrice del documentario?

Abbiamo scelto Emanuela Fanelli perché è una comica della nuova generazione, che nasce dal web, poi passa alla televisione e alla radio, utilizzando tutte le forme possibili.

Proprio Fanelli, sul finire del film, un po’ ironicamente dice che oggigiorno “si è abbassata l’asticella della comicità”. È d’accordo?

I miei quattro erano tutti dei grandi monologhisti, ma non era come la stand up comedy che c’è adesso, ovvero un piccolo sketch recitato. Chi sarebbe oggi in grado di fare uno spettacolo come Tutto Benigni, con 5mila spettatori ma con solo un canovaccio. È una comicità nata nei teatri, nelle piazze, nelle sagre, nelle feste dell’Unità. Verdone frequentava le bische, per studiare i personaggi. Non guardavi la televisione con lui, guardavi la vita reale. Nonostante facesse parte di una famiglia tra le più borghesi di Roma, c’era un’etica pazzesca. Il padre di Carlo lo bocciò all’esame di cinema. E poi i film di Nuti, Troisi e Benigni facevano degli incassi mostruosi, Verdone li raggiungerà dopo.

Se parliamo di botteghino, Checco Zalone è il re degli incassi.

 Ecco, Checco Zalone è l’unico che può avere raccolto la loro eredità, insieme a Pieraccioni, che però si ispirava al modello di Nuti, usando addirittura lo stesso sceneggiatore. Nuti, però, aveva trovato delle sequenze fortissime, ce ne è una fenomenale in cui picchia una donna e un bambino. Ora potrebbe fare una cosa del genere?

Intende dire che i nuovi modelli morali tarpano le ali dei comici più giovani?

Non lo so. Ma loro quattro se ne sono sempre fregati. Avevano un tipo di follia diversa. Come trovi un uso del dialetto come quello di Troisi, che se ne frega della comprensione. Abbassa il volume della voce fino a che le ultime sillabe sono inintelligibili, ma tutti sono lì che si spingono in avanti perché già stanno ridendo. Nei film di Troisi il rumore della risata superava le battute. Fecero addirittura un’edizione sottotitolata di Scusate il ritardo, perché la gente ridendo impediva di sentire le battute. Non voleva italianizzarsi, era fatto così.

Il documentario affronta anche un tema delicato: quand’è che si smette di essere comici?

Ci sono molte ragioni. Una è l’età. C’è il fatto che la comicità è generazionale, anche se ci sono cose che fanno ridere a prescindere.  E poi, tranne forse Verdone che fa ancora il suo cinema, hanno tutti avuto un’evoluzione. C’è un pezzo di un’intervista di Roberto Benigni, riguardo a La vita è bella, in cui lui dice dritto per dritto: ma voi pensavate che io sarei rimasto sempre uguale, che magari parlando degli ebrei avrei fatto come dalla Carrà? Voi non credete che un comico possa fare anche un tipo di cinema drammatico. Erano delle carte assorbenti, assorbivano tutto quello che avveniva in Italia, più o meno politicizzato. C’è in realtà la scelta di fare ridere anche trattando temi più o meno delicati. La scelta è quella della comicità, e la affrontano a tutto campo.

Carlo D'Acquisto
21 Ottobre 2022

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