Soudade Kaadan: “In ‘Nezouh’ la magia per resistere alla guerra”

Il film della regista siriana ha vinto il Premio Amnesty al Med Film Festival e sarà in sala a gennaio


Le bombe non possono nulla contro le stelle e anche il mare resta lì, nonostante la guerra. Lo dicono chiaramente i giovani protagonisti di Nezouh, il secondo film di Soudade Kaadan, regista siriana nata in Francia che nel 2018, con The Day I Lost My Shadow aveva vinto il Leone del Futuro alla Mostra di Venezia. Con questa storia – vincitrice del premio diritti umani di Amnesty International al Med Film Festival dopo gli applausi a Orizzonti Extra a Venezia 79 – Kaadan inquadra il buio e la luce che, alternativamente invadono la casa di Zeina (Hala Zein), quattordicenne che vive (ancora) a Damasco con i genitori mentre tutti intorno sono già scappati a causa della guerra. Papà Motaz (Samir al-Masri) non vuole sentire ragioni: “Non posso essere chiamato rifugiato!” urla, convinto di poter rimediare a ogni cosa e di riuscire a difendere il suo focolare nonostante tutto. Mamma Hala (Kida Hallosch), invece, è spaventata e vorrebbe partire, dopo che le sue figlie grandi hanno già raggiunto l’Europa per iniziare una nuova vita. Anche quando una granata apre un buco sul tetto e sui muri della casa, il testardo padre non vuole partire. E così le pareti diventano fluttuanti lenzuola colorate e dallo squarcio sul soffitto iniziano a filtrare, oltre che la luce, anche la speranza, la fantasia e l’incontro con un ragazzo, e Zeina apre il suo cuore alla magia. Nezouh, che a Venezia 79 ha vinto il Premio degli spettatori Armani Beauty e il premio Lanterna magica, è in sala dal 12 gennaio con Officine Ubu.

Quanto c’è della sua storia personale in questo racconto, contemporaneamente tragico e fiabesco?
Tutti i miei film mescolano elementi personali e di finzione e anche questo non è autobiografico al 100%. Io ho lasciato la Siria quando avevo 30 anni, perciò questa non è la mia storia, ma è la storia del cambiamento avvenuto nella mia vita. Ho dovuto lasciare la mia casa e il mio Paese. Io sono partita con le mie sorelle. I miei genitori invece sono ancora a Damasco, non sono mai andati via, infatti abbiamo sempre paura per loro. Non li vedo da due anni a causa della pandemia ma li rivedrò a Natale a Beirut. Mia sorella è in Olanda, mio fratello in Arabia Saudita e i miei genitori in Siria. La decisione se partire è un dibattito che si accende in ogni casa.

La migrazione è un tema spesso al centro dei discorsi politici, lo vediamo anche in questi giorni in Italia. Cosa direbbe a chi governa?
La questione dei rifugiati è sempre dibattuta a livello politico ovunque, in Inghilterra, in Turchia, in Italia. Credo che il diritto a muoversi sia un diritto universale degli esseri umani. Non c’è nessun popolo di nessun paese che non si sia mai spostato, noi non siamo i primi e non saremo gli ultimi. Penso che la questione dei rifugiati venga affrontata a livello politico senza vedere la diversità, il lavoro, le opportunità culturali che le persone che arrivano possono portare alla società.

A livello estetico, Nezouh lavora meravigliosamente con l’alternarsi tra il buio e la luce…
Tutto è partito da lì: ho visto una foto della guerra siriana con una casa bombardata, il tetto aperto e la luce che invadeva lo spazio attraverso il buco. Ho iniziato a scrivere proprio a partire da quell’immagine, ho pensato che fosse una bella metafora di ciò che accade in Siria: è vero che la situazione è nera, tragica, ma c’è anche la speranza, la luce. Perciò ho iniziato il film al buio, in casa, ed è stato molto difficile tecnicamente filmare l’esplosione della bomba, perché avevo bisogno anche di un’esplosione di luce. Volevo mostrare che nelle guerre si perde tutto, ma si può conservare la speranza.

Un altro elemento centrale è la forza delle donne di questa storia, la loro capacità di emanciparsi e prendere in mano la loro vita.
Bisogna sempre lottare per questo. La guerra ha distrutto la struttura della società tradizionale conservatrice e le donne sono diventate più coraggiose nel prendere certe decisioni, nel fare cose che prima non avrebbero osato fare, come lasciare la casa, viaggiare, vivere sole, togliere il velo. Tutto questo è arrivato con la guerra.

La storia si svolge tutta in una Damasco distrutta. Dove, come e per quanto tempo avete girato il film?
Abbiamo girato in Turchia, alla frontiera con la Siria, per 49 giorni ed è stato molto difficile. La città lì non è distrutta dalla guerra, ci sono delle rovine, perciò un nostro team ha trasformato interi quartieri con un grande lavoro artistico. C’è stato un 30% di effetti visivi digitali, tutto il resto è scenografia. Siamo stati talmente bravi che sono usciti degli articoli che dicevano che avevamo girato in Siria e che io ero potuta tornare nel mio Paese. Invece sono tanti anni che non ci torno ed essendo siriana ho sempre difficoltà a ricreare il mio Paese sullo schermo. Inoltre, per girare le scene della casa, ne abbiamo create due uguali. Non volevamo che i ragazzi girassero sul tetto di un vero palazzo, per di più con dei buchi. Abbiamo ricostruito tutto affinché fossero al sicuro e tranquilli. Con un budget piccolo non era facilissimo.

Sperando che un film possa aiutare almeno a portare consapevolezza, cosa spera e pensa che si possa fare per migliorare la situazione dei siriani?
Le persone non sono quasi più interessate alla Siria, dopo oltre 10 anni di guerra che ha distrutto tutto ci vorranno anni, se non secoli per ricostruire il paese. L’importante è non dire che non si può fare nulla e io ho fatto il film proprio per questo motivo. Tutti possiamo aiutare e siamo tutti connessi, non importa se siamo lontani. Siamo una comunità umana. Aiutare l’altro significa anche aiutare sé stessi. Il mio film è politico, non si nasconde, ma ci sono tanti modi diversi per prendere posizione. Non si prende posizione solo attraverso un cinema di propaganda. Per esempio La vita è bella è un film che racconta la guerra senza mai farla vedere. Il cinema italiano ha avuto un grande impatto su di me e mi ha influenzato. Io ho voluto raccontare la quotidianità della guerra e non la guerra in modo epico e roboante.

I ragazzi del film sono quelli che portano la speranza…
Ho cercato di mostrare il lato magico che solo i ragazzi riescono a vedere. È un modo per dire che spero che il futuro in Siria sia migliore del presente. Le proiezioni del film con i più giovani, poi, sono state formidabili: facevano domande bellissime, hanno capito il film più degli adulti.

Sta già pensando a una nuova storia, magari di nuovo sospesa tra magia e realtà?
Ancora non lo so. Quando scrivo non so prima dove andrò, sono i personaggi che decidono, mi lascio sorprendere da loro. All’inizio non pensavo che Nezouh sarebbe stato un film di realismo magico, ma Zeina mi ha portato da quella parte.

Michela Greco
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