Vicentini Orgnani: “Ferlinghetti, un anarchico dentro al sistema”

A poco più di un anno dalla morte di Lawrence Ferlinghetti, il doc The Beat Bomb diretto da Ferdinando Vicentini Orgnani, co-prodotto da Luce Cinecittà, ci riporta nell'atmosfera di quella San Francis


San Francisco, anni ’50, in una minuscola libreria e casa editrice chiamata City Lights, Lawrence Ferlinghetti pone le basi di quello che sarà l’iconico movimento della Beat Generation, pubblicando il testo che ne diventerà il manifesto: L’Urlo di Allen Ginsberg. Settanta anni dopo, all’età di 102 anni, Ferlinghetti muore lasciando alle spalle un’eredità culturale importantissima, non solo come editore e aggregatore di menti e spiriti, ma soprattutto come poeta dalla grandissima lucidità e ironia. Su questo personaggio e sull’inafferrabile mondo che gli ruota intorno, si basa il documentario The Beat Bomb diretto da Ferdinando Vicentini Orgnani, con le musiche di Paolo Fresu.

Presentato fuori concorso nella sezione ritratti e paesaggi del 40mo Torino Film Festiva, è una coproduzione Italia – Argentina di 39FILMS e Romana Audiovisual, in coproduzione con Luce Cinecittà. Il film viaggia avanti e indietro nel tempo e nello spazio, tra l’Italia e quel quartiere di San Francisco in cui, tra le note della musica Jazz, tutto è iniziato. Numerose le testimonianze raccolte, tra cui quelle dello stesso Ferlinghetti, per ricostruire il movimento che ha costituito forse l’ultima vera avanguardia artistica del secolo scorso.

Ferdinando Vicentini Orgnani, per iniziare, ci può raccontare l’incontro con Ferlinghetti?

Nel 2007 stavo girando per Cinecittà un documentario sul ’68. Luciano Sovena, che all’epoca era l’ad, mi mandò in missione in America, dove avevo dei contatti. Sono andato a San Francisco a cercare le radici di tutto quello che è accaduto lì tra i Beat, Black Panthers, Hippy, in quello che era un po’ un laboratorio a cielo aperto. Fondamentale è stato l’incontro con Jack Hirschman, che è morto ormai, ma che è anche lui una figura molto importante, tanto da essere quasi un co-protagonista del film. È stato lui ha presentarmi Ferlinghetti, che ha avuto subito una certa disponibilità nei miei confronti. Quando ho capito che avevo accesso a Ferlinghetti ho cominciato a girare altro materiale. Guidava ancora nonostante avesse quasi 90 anni. Mi ha portato nel suo ufficio che adesso è stato letteralmente trasportato nel Beat Museum di San Francisco. Lui ha compiuto 100 anni nel 2019, è l’ultima volta che l’ho visto.

È stata una lunga lavorazione, quasi 15 anni.

Cominciavo ad avere sempre più materiale interessante legato a questo mondo dimenticato, che è stato spazzato via dalla globalizzazione e dalla trasformazione totale di una città che adesso è il mercato immobiliare più caro del mondo. Rimane però un certo tipo di folklore, che rappresenta la difficoltà che ho avuto io nel scegliere di chiuderlo. Non sapevo ancora quale direzione prendere, anche perché avevo visto vari documentari sul tema che mi sembravano inutili. Questi dinosauri di quel mondo lì venivano messi in situazioni normali in cui erano simpatici, curiosi. Era una roba aneddotica vagamente storica, ma non c’era un’originalità. La mia originalità è stata concentrarmi sul mio viaggio, che è stato del tutto casuale. Ho avuto una via di accesso a lui, attraverso anche la gente di strada che popola questo quartiere di North Beach.

Nel film Ferlinghetti si definisce un “anarchico”, ma in un senso positivo, non con l’accezione negativa che viene comunemente data al termine.

Lui non era come gli altri, come quei poeti che rubavano i libri e vivevano di espedienti, a parte quei pochi come Kerouac, Ginsberg, Burroughs che hanno fatto un po’ di fortuna con la loro scrittura. Lui doveva gestire un business, una libreria con tante persone, una realtà che è diventata importante. Era un anarchico, ma dentro il sistema.

C’è tanta Italia in questo documentario. C’è pure una lunga sequenza dedicata a uno spettacolo al Teatro India con Placido e Albertazzi.

Sì, ho collaborato con il Teatro e il Comune di Roma per gestire quell’omaggio a Ferlinghetti. Per quanto riguarda San Francisco, quel quartiere è il quartiere degli italiani, poi si è svuotato nel tempo perché sono arrivati i cinesi. Rimangono pochi isolati che sono ancora italiani, il cafè Vesuvio, il Trieste e altri negozietti italiani. Ci sono tante persone che ritornano e si ritrovano in quella condizione di immigrati all’inizio del secolo.

È ancora pensabile la poesia al giorno d’oggi?

Jack Hirschman diceva che l’unica avanguardia possibile al giorno d’oggi sono i poveri. Perché stanno fuori dal sistema globalizzato. Mi sembra una lettura interessante. La poesia persiste perché credo sia in qualche modo nella natura umana. Uno degli obiettivi che avevo facendo il film e fare capire che la poesia ha un senso. I poeti sono i meno gettonati, sono i più poveri, ma credo che la poesia continuerà ad esistere, come il cinema, che non sta messo benissimo.

Qual è l’eredità di quel movimento che cerca di tramandare con questo documentario?

Hanno seminato delle cose che persistono e ci vorrà molto tempo perché vengano completamente spazzate via. Hanno portato alla nascita del movimento studentesco che ha portato delle trasformazioni molto profonde che viviamo tutt’ora. Una mitologia che se ne sta andando pian piano perché le nuove generazioni non ne sanno niente. Rimangono tanti documenti che possono essere studiati nelle università. Come quelli nella libreria di Ferlinghetti, che ha successo perché è un luogo mitico dove vanno tante persone, una specie di libreria-museo.

Trailer:

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