Franco Angeli: “mio zio, maestro del dolore”

Nel documentario Lo spazio inquieto, prodotto e distribuito da Luce Cinecittà, il regista Franco Angeli racconta la figura del suo omonimo zio, pittore d'importanza cruciale tra gli anni '60 e '80


“Franco Angeli era un pittore, non faceva il pittore. Era una cosa veramente radicata, fin dalla mia infanzia. Non era un mestiere, era la sua natura”. Così parla il regista Franco Angeli, in riferimento al suo zio omonimo, raccontato con passione e accuratezza nel documentario Lo spazio inquieto. Il film, prodotto e distribuito da Luce Cinecittà, è stato presentato al 40mo Torino Film Festival nello speciale fuori programma ‘Pop Screen. L’arte nel cinema italiano degli anni sessanta e settanta’.

Artista geniale e prolifico, dal fascino irresistibile e dotato di una profondità segnata dall’infanzia passata durante la guerra, Franco Angeli è uno degli esponenti, con Mario Schifano e Tano Festa, della “Scuola di Piazza del Popolo“, un gruppo di artisti attivi nel periodo della Pop Art statunitense, che a questa venne spesso, erroneamente, accomunata. Il documentario procede sue due binari paralleli ma inevitabilmente comunicanti: uno dedicato agli elementi prettamente artistici, con l’intervento di critici ed esperti; l’altro incentrato sugli aspetti familiari e personali. Il quadro che ne emerge è quello di un artista che ha letteralmente lasciato il segno e che merita di essere riscoperto ancora e ancora.

Franco Angeli, qual è la responsabilità di portare un nome come il suo? Quando ha deciso che era arrivato il momento di raccontare la storia di suo zio?

Non ti rendi conto di avere una responsabilità particolare. È il tuo nome e basta. Certo c’è il gusto di vedere la faccia delle persone quando scoprono che porto il suo nome. È stato un progetto a cui ho pensato per anni e poi, forse, a un certo punto ti rendi conto di essere più grande di lui quando è morto. Diventa una figura familiare anche più vicina, con un sentimento anche di protezione. E poi mia cugina Maria ha fatto un lavoro straordinario all’Archivio, per restituire anche una credibilità di suo padre, minata dall’impressionante falsificazione dei suoi quadri. Ha dovuto sostenere non so quanti processi per far distruggere opere false, organizzare mostre, chiamare critici. Ha ritracciato la sua figura.

Cosa ha scoperto nel percorso?

Fare un documentario è partire e non sapere mai dove andare. Per me è stato come conoscerlo da zero. Dire: Franco Angeli? Piacere, Franco Angeli. Quello che ho scoperto è che al contrario di quello che si pensa dei pittori anni ’60: belle donne, macchine, eccessi. In realtà poi si portavano dentro una sofferenza portata dalla guerra che era fondamentale per la loro arte. In qualche modo non riuscivano mai a essere felici, per questo qualcuno li aveva chiamati i ‘maestri del dolore’, invece di ‘maestri del colore’. L’infanzia dolorosa di Franco se l’è portata per tutta la vita. 

Eppure Franco Angeli e i suoi sodali vengono spesso sovrapposti a una corrente che con loro, che portavano avanti anche battaglie di stampo proletario, ha davvero poco a che fare.

Erano facilmente identificabili come Pop Art, perché bisogna sempre classificare le cose: ci sono dei colori sgargianti, delle immagini che rimandano a qualcosa che hai nella memoria, l’idea della serialità dei simboli che venivano reiterati e ti viene data quell’etichetta. Ma la Pop Art americana si riferiva a oggetti che non avevano significato fuori da quello merceologico. Invece, per loro la Pop Art era la Cappella Sistina, quello è l’immaginario artistico di riferimento e Franco aveva trovato nelle svastiche, nelle falce e martello, nelle aquile, nelle lupe, questa simbologia che faceva parte del tessuto urbano.

La componente sonora e musicale colpisce per coerenza e intensità, come ci avete lavorato?

Maria, figlia di Franco, ha sempre scritto musica. Da una parte c’era la possibilità di accedere a una library di titoli dell’epoca, ma con un costo pazzesco, dall’altra l’idea di fare un film sentito da tutta la famiglia. C’è mio padre, la moglie Livia Lancellotti e mia moglie Livia Bonifazi. – casualmente sia io che mio zio abbiamo sposato una Livia -. Tutto fatto in casa, insomma. Maria ha cantato la canzone di Piero Ciampi, perché faceva parte del gruppo di Franco e si pensa che sia stata scritta proprio pensando a lui. Un’interpretazione ancora più commovente perché cantata dalla figlia di Franco. Per quanto riguarda le voci fuoricampo, ho messo la voce di mia moglie Livia, una voce femminile quindi, perché non volevo che si confondesse il falso con il vero.

A proposito, Livia Bonifazi, come è stato dare voce a questa persona così carismatica?

È stato interessante perché non ho dovuto dare voce al personaggio, ma al pensiero. Non solo che non ci fosse confusione tra il reale Franco Angeli e una voce che fingesse di essere lui, ma dare un rilievo a quello che era il suo pensiero, il suo sentimento, espresso nei suoi scritti più intimi e nascosti. È questo che ho cercato di restituire.

Approfondimento video: guarda video.

Carlo D'Acquisto
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