Dalila di Lazzaro, per i miei 70 anni vorrei un cameo in un film

L'attrice: "Il ricordo più bello? Girare con Lattuada"


Comencini, Salce, Lattuada, Vancini, Steno, Argento, Corbucci: sono solo alcuni dei grandi registi con cui ha lavorato Dalila Di Lazzaro, una delle interpreti in assoluto più versatili del cinema italiano. L’attrice friulana, iconica ex modella e soggetto dei fotografi più famosi al mondo, dai primi anni ‘80 protagonista di commedie pop e importanti film sul piccolo e grande schermo, oggi compie 70 anni.

“Vi racconto come è arrivato il cinema nella mia vita: molto presto, quasi per caso. Mio figlio Christian è nato nel ’69, io avevo sedici anni, ero giovanissima e già lavoravo con la moda e la pubblicità. Facevo la spola tra Milano e Roma con le mie cartelle di fotografie, poi a un certo punto il Campari mi ha portato fortuna. C’era un bel ragazzo, un modello, dirigente di azienda, io ero la sua segretaria… lui era americano, mi disse ‘hai delle foto? Hai una faccia pazzesca, tu devi venire in America. ‘Eeeeh, llalléro!’ – gli ho detto. Ha insistito, gliele ho fatte vedere, ne avevo scattate da un bravissimo fotografo, lui ne prese una e mi fece scrivere dietro il mio nome cognome, indirizzo e telefono. Poi lui partì per gli Stati Uniti e dopo 4 o 5 mesi mi arrivò questa telefonata dalla Champion, la casa di produzione di Carlo Ponti e Andy Wharol… e da lì, da quella foto è nato tutto, mi ha portato a Cinecittà.

Quindi girò con loro il suo primo film.

Si, mio primo film fu proprio Il mostro è in tavola… barone Frankenstein, diretto da Wharol e Morrissey. Era il 1973, ricordo la prima volta che entrai negli Studi di via Tuscolana: erano altissimi, giganteschi… allora non erano riscaldati e io che sono freddolosa dovevo stare seminuda, perché interpretavo la donna perfetta per il suo Frankenstein: una versione nuova, molto complessa come regia per il tempo, con un sacco di telecamere… Avevo mille cicatrici ovunque, nel collo, nelle braccia, nelle mani, nelle gambe, dappertutto: solo per truccarmi impiegavano cinque ore al giorno, dovevo alzarmi alle cinque del mattino per esser là alle sette e iniziare il trucco. Lì allora ebbi un esaurimento nervoso, perché non ero abituata a quei ritmi, poi si lavorava fino a tardi…”

Cos’altro ricorda di Cinecittà in quel periodo?

“Ricordo che incontravo spesso Fellini e tanti altri registi, li trovavo lì al bar degli Studi… Io ero attratta da Fellini, ma ero magra come una cavalletta, e lui ogni volta mi dava un pizzicotto sulla guancia e mi diceva: ‘ma tu con quella faccia perché non ingrassi un po’, così facciamo un film insieme? Perché sei troppo magra, sei magrissima’… E io gli dicevo ‘ma questa è la mia costituzione, non posso fare altrimenti… Lui adorava le donne carnali, ma io ero ipertiroidea, non ingrassavo…’ Così ogni tanto ci salutavamo, speravo sempre che non guardasse la mia magrezza ma qualcos’altro, hanno il loro fascino anche le magre! Poi c’erano agenti che mi dicevano ‘rifatti il seno, fatti le tette grandi’, e rispondevo ‘ma voi siete pazzi, neanche morta’. Io non ho fatto niente, mai, così son nata e così rimango, non è nel mio stile di vita, non potrei mai sentirmi qualcosa di finto addosso. Poi a Cinecittà ricordo di aver fatto anche un film con Mastroianni e la Loren, in cui ero una ragazza che usciva da una torta (La pupa del gangster, di Giorgio Capitani, 1975, ndr)… Avevo una parrucca sintetica e mi grattavo in testa come una pazza, e soprattutto dovevo stare chiusa dentro a questa grande torta insieme a delle colombe bianche, che mi beccavano, mi facevano di tutto… Un delirio ogni volta, quando la aprivano ero sconvolta, tutta scompigliata… in effetti a volte mi facevano fare cose molto scomode e un po’ mi scoraggiavo, mi dicevo ‘mamma mia che fatica sto mestiere…’ Ero truccata alla Rita Hayworth, quel genere là, ciglia finte, con scarpe strette che non erano il mio numero, in ginocchio… Mamma mia, che ricordi! Bè in effetti se non eri la protagonista molti se ne approfittavano, ti dicevano ‘fai così’ e così dovevi fare”.  

Questi i primi film a Cinecittà, ma chi ha lanciato definitivamente la sua carriera cinematografica è stato un altro regista.

“Si, è stato Lattuada. Lui mi ha dato il ruolo da protagonista per la prima volta, devo dire che era un uomo fantastico: un ometto piccino, ma delizioso, una persona tanto a modo, garbata… e poi amava le donne, le voleva tenere sempre al massimo, per cui ti sentivi curata, comoda insomma. Ma lui ha visto in me Serafina perché io a un certo punto gli dissi ‘guardi io non vengo a fare il provino, io sono Serafina!’ Lui rimase scioccato e io gli dissi ‘sì sì, ho letto il libro e le assicuro che io sono Serafina!’. Lui il giorno dopo è arrivato con lo scrittore a casa mia, ci siamo visti, parlati e mi hanno fatto il contratto subito. È stata una grande gioia girare con lui, è stato bellissimo: il ricordo più bello, credo. Abbiamo girato tra la Lombardia e Bangkok”. (Oh, Serafina, di Alberto Lattuada, 1976, dal romanzo omonimo di Giuseppe Berto)

Alberto Lattuada il più bel ricordo, dunque, il primo a valorizzarla. E tra gli altri grandi maestri con chi ha lavorato con più piacere?

“Mi sono trovata bene con tutti i registi con cui ho lavorato. Luigi Comencini ce l’ho nel cuore, ma anche tanti altri, Florestano Vancini, che caro… Poi Flavio Mogherini, fu una bellissima esperienza anche con lui, con La ragazza dal pigiama giallo (1977), andammo in Australia, e devo dire anche lui una persona che ti metteva molto a tuo agio, un po’ stile Lattuada. Andava bene sempre ‘la prima’, anche se facevamo il secondo ciak. Mi spiegavano e io andavo. Comencini era un uomo meraviglioso, più rigido di Lattuada, mi metteva soggezione, sembrava un ragioniere! Ma è stato bello lavorare in quel film (Voltati Eugenio di Luigi Comencini, 1980), soprattutto con Francesco Bonelli, gli ho voluto tanto bene”.

Lei ha frequentato un’importante scuola di recitazione, a New York.

“Si, dopo Oh Serafina! sono stata in America, per sei – sette anni. Lì ho frequentato l’Actor Studio, ma non parlavo bene l’inglese, dunque ascoltavo, cercavo di guardare, assorbire quel che vedevo nei corsi. Ma non ero molto costante nel seguirli, mi stancavo, non ci andavo. Poi invece ho fatto pace con l’inglese, mi è piaciuto molto e mi è dispiaciuto tornare in Italia, ma mi mancava mio figlio, ho scelto lui invece della carriera”.

E al ritorno in Italia poi com’è andata?

“Io aspiravo a fare altri film, mi sentivo le spalle coperte da questo produttore, Carlo Ponti, che però mi diceva ‘sei una sciocca, non ti rendi conto delle tue possibilità, te lo dice un pigmalione: devi studiare, fare questo e quell’altro, tornare in America, andare qua e là…’ Io però che avevo avuto un figlio a sedici anni (Christian, morto in un incidente stradale a 22 anni, ndr), ero stata prematura anche in quello, avevo delle responsabilità e non era facile mettere tutto in una valigia e partire. Lui mi diceva che ero una pazza, che sarei potuta diventare la Greta Garbo degli anni ’90, ma non mi ha mai convinto. Anche altri attori in America, come Warren Beatty, mi chiedevano cosa ci stessi a fare in Italia, mi dicevano che non avrei mai fatto strada… O Alain Delon, anche lui quando abbiamo fatto il film insieme (Tre uomini da abbattere di Jacques Deray, 1980) insisteva perché rimanessi in Francia, ché lì avrei avuto delle possibilità… Ma appena potevo scappavo subito in Italia, non volevo stare lontana da mio figlio, non volevo lasciarlo solo, mai. Sì, è vero, forse avrei avuto una bella carriera anche in Francia, se avessi voluto. Ero una ragazza molto timida, anche indolente, non ero arrogante, ambiziosa, quel che serve per fare quel mestiere lì insomma… Lasciavo che le cose arrivassero a me. Tornai in Italia sperando che qualcuno si accorgesse di me, alcune cose le ho fatte perché le dovevo fare per mantenermi, ma se devo essere sincera… non ho amato tutto quello che ho fatto”.

Qualcosa che le piace raccontare sul suo rapporto con il piccolo schermo.

“Quando ho fatto il primo telefilm con la Rai (Aeroporto Internazionale, 1985), che ebbe un successo enorme, anche lì dovevo stare tre mesi via, ma ogni weekend ero a casa, per stare con Christian. I ruoli in TV certamente mi hanno reso più popolare, anche quando ho fatto Disperatamente Giulia (di Enrico Maria Salerno, 1989) abbiamo avuto milioni di telespettatori, veramente c’era un grande regista e un bel cast. Anche nella serie 1992, con Stefano Accorsi, mi sono trovata molto bene. Ma forse aveva ragione Carlo Ponti, che mi diceva ‘non andare sullo schermo piccolo, perché lì non ti pagano per venirti a vedere’. Ma io dovevo lavorare, non potevo vivere di gloria. L’ultimo che ho fatto in tv era Kidnapping, di Cinzia Torrini, in cui mi sparavano addosso. Ma quel che è fatto da registi di talento va sempre bene, anche un nudo fatto da un grande regista va bene, se lo fai con un cane viene una schifezza”.

Per un lungo periodo lei è stata una figura molto amata dal pubblico, rimasta tuttora nel cuore degli italiani. Oggi è il suo compleanno, ha qualche progetto in campo? O un sogno, un desiderio che le piacerebbe realizzare più di altri?

“Mi avevano proposto di fare un film dal mio primo libro (Il mio cielo, edizioni Piemme, 2006), ma nelle mie condizioni fisiche non me ne posso permettere il lusso”.

Venticinque anni fa, infatti, un incidente motociclistico provocò all’attrice la frattura della prima vertebra cervicale, causa tuttora di costante dolore cronico invalidante, che l’ha costretta a letto per undici anni.

“Forse scriverò un libro, mi piaceva tanto farlo quando ho scritto gli altri sei, mi sono molto divertita. Ma uscirà quando non ci sarò più, al massimo un po’ prima. Vorrei raccontare alcuni fatti che mi sono accaduti negli anni, molto forti, e che mi hanno turbato molto. Ma la vita è un film incredibile che tutti noi abbiamo. Quindi, se avranno pazienza per i tempi di cui ho bisogno per spostarmi, per muovermi… vorrei tanto tornare a fare un cameo, ecco: in un bel film, per il Cinema”.  

Giovanna Pasi
29 Gennaio 2023

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