Steven Spielberg: “The Fabelmans? E’ nato durante la pandemia”

La sua carriera, l'infanzia, i legami familiari, il periodo della pandemia. Steven Spielberg, a Berlino per ritirare l'Honorary Golden Bear


BERLINO – La sua carriera, l’infanzia, i legami familiari, il periodo della pandemia come periodo di svolta. Steven Spielberg, a Berlino per ritirare l’Honorary Golden Bear, è estremamente generoso, sorridente e affabile, nel parlare con i giornalisti presenti. Il 76enne regista americano considerato da molti un genio assoluto, autore di film come Schindler’s List e Salvate il soldato Ryan, ha ricevuto già molti premi alla carriera, dal Leone d’oro di Venezia nel 1993 all’Irving G. Thalberg Award. Ma si dice “onorato” da questo riconoscimento che arriva “in un momento così importante per me, in cui ho diretto il mio film più personale ed emotivo, The Fabelmans. Un premio alla carriera ti spinge a riflettere, a guardare indietro”.

Cosa è cambiato rispetto ai suoi inizi in termini di energia e ispirazione?

Nulla, in me c’è la stessa forza che mi ha spinto ai miei esordi. Ero bambino quando ho sentito per la prima volta quell’eccitazione unica e insuperabile. L’unica cosa che la supera è la nascita dei figli. 

Lei ha diretto decine di film, ha un suo preferito?

E’ banale dirlo, ma i film sono come i figli, non c’è mai un preferito. Posso dire che a lungo Schindler’s List è stato il più emozionante, il più difficile e quello che, tra le altre cose, ha permesso di creare la Shoah Foundation, che raccoglie le testimonianze delle vittime dell’Olocausto, un progetto di cui sono particolarmente orgoglioso. Ma oggi il primo posto a livello di emozioni è stato occupato da The Fabelmans

Perché proprio adesso ha deciso di raccontare la storia della sua famiglia e della scintilla che l’ha portata a fare cinema con The Fabelmans, plurinominato agli Oscar?

Durante la pandemia ero sequestrato in casa con la mia famiglia e ho cominciato a respirare, a riflettere. Mi sono reso conto che non avevo mai avuto il tempo di fare un film su mio padre, mia madre, le mie sorelle. Tutti i miei film sono personali e parlano in qualche modo della famiglia, ma nessuno è altrettanto specifico.   

Quali sono state le influenze che l’hanno portata ad essere quello che è?

Come tutti sono stato influenzato dai miei predecessori. Una volta, avevo nove anni, i miei andarono a vedere Sentieri selvaggi di John Ford e mi lasciarono a casa perché ritenevano che il film fosse troppo violento. Il giorno dopo presi degli spicci e andai da solo al cinema. In quel momento non capivo molto bene cosa volesse dire, ma più tardi quell’esperienza mi è tornata. 

Considera The Fabelmans anche come un film terapeutico?

Non guardo al cinema come terapia, ma penso che il subconscio abbia un ruolo nel tirare fuori certi traumi. La separazione dei miei genitori mi ha colpito molto e l’ho portata nella mia arte, per esempio in L’impero del sole

Come ha trovato il coraggio di raccontare la storia della sua famiglia?

Mia madre, morta esattamente sei anni fa, proprio oggi, ha avuto un ruolo importante. Era una donna innamorata della vita, che sapeva prendere decisioni improvvise, per esempio se voleva andare a vedere le stelle, prendeva la macchina e andava nel deserto. Durante la pandemia mi sono molto spaventato, ho cominciato a pensare alla mia mortalità, all’invecchiare, e così è venuto il coraggio di fare The Fabelmans. Nel film, come in tutto il mio cinema, c’è dolore ma c’è anche umorismo. Per me il divertimento è fondamentale, ce l’ho nel cognome “spiel” vuol dire gioco in tedesco. 

Che ricordo ha di Francois Truffaut?

Da lui viene in parte l’ispirazione di E.T. Fu lui a dirmi, nel suo inglese approssimativo, “tu hai il cuore di un bambino e devi fare un film con i ragazzini”. 

E di Stanley Kubrick?

Siamo diventati amici nel 1979 mentre stava preparando Shining e lo siamo rimasti sempre. Da molti anni, su indicazione della vedova Christiane Harlan, sto lavorando come produttore al suo progetto su Napoleone che dovrebbe diventare una serie in sette puntate per HBO. Adesso la cosa sta diventando più concreta. 

In The Fabelmans c’è una scena in cui il suo alter ego adolescente incontra John Ford e viene trattato piuttosto male. Cosa consiglierebbe a un giovane regista?

Non farei mai come John Ford, non direi ‘esci fuori dal mio ufficio’. Quel dialogo però è vero, le cose andarono proprio così, John Ford era una forza della natura. In quel momento mi sentii umiliato e sbagliato, ma più tardi mi resi conto che mi aveva fatto un grande regalo. Avevo 16 anni e la sua durezza fu fondamentale, gli sarò per sempre grato. Che consiglio darei io? Di concentrarsi sulla storia. Bisogna innanzitutto capire se una storia è interessante, poi scriverla bene, e se non sei bravo a scrivere chiama uno sceneggiatore esperto. La storia è di gran lunga più importante delle inquadrature. 

Cosa farà adesso?

Sono stato molto coinvolto prima da West Side Story, perché non avevo mai fatto un musical e lo desideravo da sempre, e poi da The Fabelmans. Adesso non ho idea di cosa farò ed è una sensazione orribile, perché io ho bisogno di lavorare. 

 

Cristiana Paternò
21 Febbraio 2023

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