Claudia Marsicano: “Ho appena terminato ‘Rome Sweet Love’, col produttore di Hanna Montana”

Madrina al Festival di Spello, l’attrice – già Premio UBU under 35 – annuncia la serie, il prossimo anno su HBO e in Italia. Comunque, “io – da persona grassa – non trovo la mia inclusività"


SPELLO – Claudia Marsicano, 31 anni, vivacissima mente e versatile interprete, visione lucida sullo stato della realtà e della creatività, specchio pragmatico della “body positivity”, partecipa alla XII edizione del Festival del Cinema Città di Spello e dei Borghi Umbri in qualità di madrina

Claudia, la Notte degli Oscar ha confermato una forte attenzione all’inclusione: pensa che in questo momento ci sia ‘un’ossessione’ rispetto alla messa in pratica del concetto, oppure è corretto sia così attenzionato?

È molto complessa la domanda, io stessa mi trovo sia da una parte che dall’altra della discussione: per quanto sia giusto ‘invitare alla festa il bambino escluso’, perché poi ci si rende conto sia simpatico e ci vuoi giocare, dall’altro lato mi sembra che la questione sia ancora molto superficiale; io – da persona grassa – non trovo la mia inclusività, comunque agli Oscar è stata premiata una persona che indossa un costume ‘da grasso’, Brendan Fraser, non un grasso vero. Perché? Io perdo ruoli su ruoli perché sono grassa: perché non posso fare la protagonista di una commedia romantica, non posso fare un film d’azione, non posso fare l’avvocato? Io sono la cicciona triste o la cicciona simpatica. Per quel ruolo, che Fraser ha interpretato in maniera magistrale e quindi va benissimo, hanno chiesto a una persona veramente… grassa di fare il provino? Probabilmente no. E allora perché io non posso esistere come attrice a 360°, ma devo essere interpretata da un’altra? Se il ‘blackface’ non è giusto, e sono d’accordo non lo sia, perché qualcuno vestito da grasso invece può esserlo? Le regole inclusive degli Oscar sono allucinanti, ma sono necessarie in questo momento, per far sì che tutti possiamo avere un posto in quel tavolo. 

Continuando la linea del discorso sull’inclusione, la creatività del presente ne risente o ne patisce? Le sembra che funzioni un po’ come il rispetto a tutti i costi del ‘politicamente corretto’, che può inibire la comicità?

 Il discorso è sempre duale. Se da un lato è necessaria una censura agli occhi del mondo, dall’altro ci si dimentica che i limiti siano una risorsa: avere dei veti ti permette di andare a esplorare altro; perché non facciamo delle battute sui cani, che sicuramente non si offendono? Dobbiamo per forza ridere delle minoranze? Non possiamo ridere delle cose di tutti i giorni, dei quadri per esempio? Possiamo ridere di qualsiasi cosa, nel rispetto di tutti. Si può ‘colpire’ l’essere umano, ma in maniera universale: invece sono o le donne, o il gruppo raziale, o l’omosessualità; non si può ridere del maschio o del patriarcato? Eh no, è come la donna che usualmente non può essere ‘la comica’, perché ‘il comico’ è uomo, e figuriamoci se rida di se stesso. Ci si dimentica della risorsa che c’è nel limite. 

Rimanendo sul presente, qual è in questo momento il suo personale, dal punto di vista artistico?

Claudia è in crisi artisticamente! Però è uno status estremamente vitale, la crisi non è statica: se avessi detto ‘stasi’ sarebbe stato drammatico, come l’appeso dei tarocchi, invece c’è comunque grande movimento. Sto ricontattando molto il teatro, soprattutto spettacoli di repertorio, che mi mettono in contatto con una vecchia me che non era così disillusa, così arrabbiata nei confronti del mestiere, che aveva una voglia di ‘spaccare il mondo’. Inoltre, sto insegnando: vedere i più piccoli così persi mi mette una grande carica, ho voglia di dirgli di smoversi, che dobbiamo andare oltre, ‘siete voi il futuro’. Di me, m’importa relativamente: m’importa di che verrà dopo, perché della mia generazione non è importato a nessuno, quando siamo arrivati ‘a tavola’ non c’erano più manco le briciole, forse nemmeno la tovaglia stesa: io ho bisogno di apparecchiare per chi verrà dopo di me, però dovete mangiare ragazzi! Adesso, ho quindi bisogno di ricontattare la Claudia famelica, che ha voglia di cambiare le cose, che non è assuefatta, quella che dice: sì, ce la posso fare!

È ‘una giovane attrice’ all’anagrafe, ma la sua carriera non è così recente: che possibilità offre il tempo presente a un giovane artista – attore, regista, sceneggiatore – e di cosa invece soffre l’impossibilità o la mancanza?

Se io sono in crisi lo è anche il mondo intorno a me, in questo momento. Sento aria di rivoluzione ma non sento voglia di rivoluzione. Sento che il terreno è fertile per imbracciare i fucili metaforici, cambiare il sistema stantio, che si trucca ma non cambia mai veramente. Non sento però scintille, siamo dormienti, mentre questa è un’occasione: io vado al cinema, a teatro, ma mi annoio, vedo sempre la stessa cosa, sento sempre lo stesso discorso. Spero che questo torpore esploda. I vecchi son morti, ora sta a noi! La generazione del passato non c’è più, la generazione del presente siamo noi: mi spaventa che chi oggi sta al vertice sta diventando quello che odiava e io ho paura di diventare quella cosa lì. Non so come ma bisogna tentare, senza la paura di sbagliare: posso fare anche ‘una cagata pazzesca’ ma sono andata oltre, mi sono messa in discussione. 

Il teatro è casa sua – diploma a Quelli di Grock di Milano, ha vinto il Premio UBU 2017 come attrice under 35 -, mentre il cinema è arrivato un po’ più di recente con Mi chiedo quando ti mancherò di Francesco Fei e con la serie Noi, adattamento di This is us. Giocando a fare la critica di se stessa, in cosa si riconosce efficace nell’uno e nell’altro? 

 Il teatro per me è incredibile per il riscontro immediato di dove stai tu come intrattenitore, quello siamo: io sono molto brava ad avere a che fare col pubblico, lo sento molto. Ho fatto questo spettacolo, R.OSA, in cui sono in scena da sola, parlo in inglese, e quel lavoro mi ha aiutata in questo rapporto veritiero col pubblico: l’attore a un certo punto è quasi una baby sitter del pubblico, deve capire di cosa ha bisogno. E poi, a teatro, bisogna avere compassione di sé, perché se tu sbagli una battuta non la puoi rifare, ti devi dimenticare dell’errore e andare avanti, se no lo spettacolo ne risente. Al cinema ti puoi permettere, invece, di fare ‘quello che vuoi’! All’inizio avevo l’ansia da prestazione, facevo 2/3 take e ‘perfetto’ ma mi dicevo: perché non prendersi quel tempo di sperimentare? Insomma, Marlon Brando se lo sarà preso il tempo di sperimentare Il padrino, no?? Il potere del cinema è il tempo, prenderselo per cesellare le cose è meraviglioso. Comunque, l’attore bravo è bravo e basta: sì, forse al cinema è più facile ‘far recitare le pietre’, ma il talento è talento. 

Il cinema l’affascina anche come autrice, regista? Segue l’idea di un debutto dietro la macchina da presa?

Mi affascina ma mi spaventa anche, tanto. Il teatro è famiglia, un pranzo domenicale. Il cinema significa tanta gente, il regista ha una responsabilità incredibile: quando sono arrivata sul set la prima volta mi sono resa conto il regista sia un capitano di una nave, ma grande, da crociera. Quindi sarebbe bello, ma per ora ho bisogno di soddisfare fino in fondo la mia necessità d’interprete, soprattutto al cinema, perché ho voglia di sperimentarmi come attrice. 

Qual è in questo momento il suo rapporto in corso con il cinema?

 Ho appena terminato una serie, una produzione Canada-USA-Italia: il produttore è quello di Hanna Montana, è un progetto per ragazzi, Home Sweet Rome, ed è ambientata in Italia. Il plot racconta di questa ragazzina figlia di un archeologo americano, che non essendoci niente da scavare a Los Angeles, giustamente viene a Roma: lui si sposa con una pop star e io sono l’agente di lei. È originalissima. Io ho cominciato col Teatro Ragazzi, quindi è stato un ritorno alle origini. Uscirà il prossimo anno su HBO in America, e pressappoco nello stesso periodo anche in tv in Italia: ci sarà un’anteprima in Canada ad aprile. È un personaggione il mio, che non ha niente a che fare con la mia fisicità, a proposito del discorso di prima: è colorato, è super pop.

Il cinema, dunque, dà opportunità internazionali anche agli attori italiani. 

 Incredibile, sì. Secondo me si sta aprendo qualche porta: come per Beatrice Grannò che ha fatto White Lotus. Poi, diciamolo: noi – la mia generazione, almeno – abbiamo iniziato a recitare perché abbiamo visto gli americani, questa cosa va ammessa, c’è un debito di gratitudine: da piccola volevo fare l’attrice, perché? Perché guardavo i film americani, non perché guardavo Fellini; quello c’è, ma è venuto dopo. Oggi però ci dobbiamo rendere conto di non aver niente da invidiare loro, proprio perché sono stati i nostri padri, però io ho imparato anche da Grotowski, da Stanislavskij, e questa gente non era americana, e gli americani hanno imparati da loro. 

Questo chiama in causa lo studio, mentre continua a ricorrere il qualunquismo del ‘sei carina, potresti fare l’attrice’, come se il talento non contasse.

Non c’è la cultura dello studio in Italia. Si fa l’accademia spesso con l’idea che sia il trampolino di lancio: no! Quello è l’inizio del tuo percorso. Io studio tutto il tempo, continuo a trovare occasioni di studio, anche con persone più giovani di me, che anzi cerco come stimolo: il mio lavoro ha a che fare con lo studio, perché è lo studio dell’essere umano. Noi, come attori, imitiamo l’esistenza e come fai a imitare l’esistenza? La devi studiare… 

La fotografia che accompagna l’intervista è di Federica Frigo. 

Nicole Bianchi
18 Marzo 2023

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