Alessandro Gagliardo: “Gli ultimi giorni dell’umanità sono una scoperta continua”

Gli ultimi giorni dell'umanità, in sala dall'8 maggio, è il film nato dall'archivio di Ghezzi. Il coautore Alessandro Gagliardo ci ha raccontato cosa significhi lavorare su migliaia di filmati


Un progetto monumentale, senza struttura o obblighi architettonici. Un flusso libero di immagini, che trovano collocazione in chi osserva e si presta all’imprevisto. Gli ultimi giorni dell’umanità è il film con cui Enrico Ghezzi, critico, autore, regista italiano, noto per programmi come Fuori Orario o Blob, restituisce il proprio archivio al mondo, in una forma magmatica e sfuggente. Centinaia di riprese, immagini e clip si affiancano, tese sul precipizio del senso. “Tra possibile e impossibile”, ci racconta il coautore del film Alessandro Gagliardo. Un film di montaggio che mischia e rimescola, tra intimità del vissuto, con la famiglia Ghezzi e la figlia Aura al centro, e universalità dell’immagine.

Il film prodotto da Matango con Rai CinemaLuce Cinecittà in associazione con Minerva Pictures Group, Cinedora, Parallelo 41 Produzioni, è al cinema dall’8 maggio con Cineteca di Bologna dopo essere stato presentato Fuori Concorso al Festival del Cinema di Venezia 2023.

 

Nell’enigmatico gioco di frammenti e suggestioni, Gli Ultimi giorni dell’umanità invita a una poetica del possibile e si affida libero allo spettatore. Ne abbiamo parlato con il suo coautore Alessandro Gagliardo, cercando di trovare i confini di un oggetto proteso all’infinita spazialità.

 Iniziamo da un inquadramento: mi descrivi Gli ultimi giorni dell’umanità per chi è cresciuto conoscendo la figura di Enrico Ghezzi e per chi invece non appartiene alla generazione di Blob e Fuori Orario?

Secondo me c’è un elemento comune tra le persone che conoscono l’esperienza, la teorizzazione dei ricordi e l’esplorazione di Enrico sul cinema, e chi non lo conosce. A prescindere da tutto, ti ritrovi davanti a qualcosa che ha una grandissima emergenza di essere vivo nell’attuale. E quindi il carattere comune tra chi conosce e chi non conosce è la sorpresa, cioè il fatto di non ritrovarsi né all’interno di un indice, diciamo storico-cinematografico-critico, né ritrovarsi davanti a una forma che ti puoi aspettare se non conosci quella cosa, se non conosci una certa sperimentazione televisiva, se non conosci anche nel caso specifico alcuni film. Questi due elementi sono esattamente la maniera in cui abbiamo cercato di condurre l’esperienza creativa e immaginativa attorno al film. Eravamo molto più volenterosi, desiderosi di sorprenderci con la nostra volontà, e di restituirla. Sia chi conosce, sia chi non conosce Enrico, quello che si trova è la grande volontà di riscoprire e giocare.

Un lavoro d’archivio, quindi un lavoro di ricerca. E mi sembra sia un termine che torna spesso nelle vostre dichiarazioni, ricerca. Cosa avete trovato?

Questo film ha avuto in ogni passaggio del suo farsi un elemento che andava in un certo senso scoperto. Te la faccio più semplice. Io ho spesso detto che il lavoro che abbiamo fatto io e Enrico assieme, nello specifico, è quello di tenere aperto uno squarcio, cioè di stare, come dire, in equilibrio e ben tranquilli in quella posizione tra impossibile e possibile. E cosa vuol dire questo? Che in effetti non abbiamo mai proceduto per una determinazione precostituita di quello a cui volevamo arrivare, e quindi abbiamo scoperto molte cose. Innanzitutto il fatto che per fare un film come questo è stato determinante la possibilità di trascorrere un tempo comune tra persone. Abbiamo passato mesi di convivenza con Enrico e altre persone, che poi sono tutte quelle dei primi cartelli del film. Quindi la prima scoperta è che per avere la possibilità di arrivare a una forma partecipe del tuo desiderio di libertà, è probabile che produrre del vissuto di qualità tra persone con la testa libera sia uno degli elementi essenziali. Significa appunto lo smontaggio di una produzione gerarchica, programmatica, che è tipica della produzione cinematografica. Quindi quando ti rimetti all’interno di una dimensione di questo tipo, le eccedenze, cioè le cose che spuntano, sono veramente particolari. Mi ricordo due momenti costitutivi del film: il primo periodo di esplorazione dell’archivio dopo la digitalizzazione, che era la fase della macchina che cattura l’eccedenza, poi i sei mesi alla Fondazione Morra a Napoli.

La cosa molto interessante era che da tutte le parti c’erano degli schermi accesi. Vuoi perché c’erano più postazioni di montaggio, vuoi perché i dispositivi erano concepiti così, ma dove ti giravi vedevi delle immagini che emergevano dall’archivio, e questo è come un voler allenare l’occhio. Ce l’eravamo detti con Enrico, che avremmo capito con la coda dell’occhio come montare il film. La scoperta sta nel fatto che una cosa, l’archivio di Enrico, viene presa e tirata fuori, e inizia a occupare uno spazio con cui devi dialogare. Sono state assolutamente determinanti tutte le indicazioni di Enrico, che erano in realtà suggestioni. Avevamo una libreria minima di 600 film da tenere sempre presenti, da quelli non si poteva scappare. Film, autori e titoli. La cosa secondo me più felice di questa esperienza è aver lavorato con una persona. Enrico non ha mai accennato a perdere la curiosità, non ha mai smesso di cercare di fare di questa situazione un’opportunità per superare un suo modo di fare già conosciuto. Questo secondo me è proprio delle persone con una grande intelligenza, avere la capacità di non condurre il progetto in qualcosa che è già stato verificato.

Ci son diversi strati dunque. C’è il film che appare allo spettatore in modo sempre diverso, quello che avete prodotto lavorando al montaggio e ai rapporti tra voi, e infine il cimitero dei film che non sono diventati il vostro…

Sì esatto esatto, è quello. E infatti Gli ultimi giorni dell’umanità è anche la traccia di tutti i film che ancora non sono stati, a partire da questo stesso archivio. L’altro giorno un amico filosofo mi diceva: non c’è forma senza un limite. Noi abbiamo mantenuta valida la tensione affinché questa forma si definisse. E qui c’è anche uno spazio di differenza tra un’idea dell’apertura infinita e invece il mantenimento sulla tensione dell’apertura infinita, che però può, e in questo caso sta implicando, un primo licenziarsi di una forma, una forma che è talmente mutante che abbiamo iniziato a produrre del nuovo a partire da questo archivio.

Tu hai vissuto forse il sogno proibito di un montatore, totale libertà in un archivio sterminato

Certo, senza indicazioni precise! Se potesse servire, diciamo così, da volano onirico, sarebbe molto bello

La relazione con Ghezzi è stata fondamentale per realizzare Gli Ultimi giorni dell’Umanità. Mi racconti come è nato questo questo rapporto e come è cambiata la tua visione di Ghezzi, passando da spettatore a suo collaboratore

Siamo passati dall’idea al “facciamolo” nel giro di due telefonate. C’è una premessa molto lunga: non sono mai stato uno di quelli che registrava Fuori Orario, ma l’idea che la televisione fosse questo flusso ininterrotto, all’interno del quale si può costruire visione su visione, ha sempre incontrato le passioni del mio lavoro. Nel 2009 vedo però un episodio di Fuori Orario in cui Enrico entra a casa di Umberto Eco con la sua videocamera. Umberto Eco faceva i tarocchi a Enrico, e a me quella scena colpì molto. Mi fece pensare immediatamente che una persona che filmava in quella maniera, cioè con questo occhio fiume, senza staccare, con una ricerca non compositiva, era più di una persona che aveva in un certo senso girato tantissimo. Così l’indomani gli scrissi una mail, “Gentile Signor Ghezzi, ho visto ieri sera Fuori Orario, mi viene da pensare che ci dev’essere un bel archivio dietro. Sarei disposto a lavorare a questa cosa, a pensare di farne qualcosa”. Non ci fu risposta. Passano molti anni e ci incontriamo per altri versi, per un altro film che abbiamo fatto. Dopo un po’ mi arriva una proposta, un film che era un altro film. Non era questo. Io ci penso e dico: “ma sinceramente mi piacerebbe ancora lavorare a quella idea”. E lui mi dice “quando iniziamo?”. Nell’arco di tre giorni ho smontato il mio studio in Sicilia e sono arrivato nel salone di casa di Enrico. Sono proprio arrivato con tutte le macchine, abbiamo allestito lo spazio e abbiamo iniziato ad acquisire le videocassette.

E lì è l’inizio di questa relazione con Enrico, che era una fiducia nella possibilità. Questa cosa non è stata vera per tanto tempo, eppure la sua verità cresceva di giorno in giorno se vuoi, nell’attenzione alla qualità del rapporto. Ed è sempre stato un rapporto non fatto della necessità di costruire attraverso il discorso un incontro, ma attraverso poche parole. Parole che non sono mai state sciupate, che sono immediatamente state messe nella condizione di diventare tentativo di fatto.

Fammi un esempio.

Una delle prime cose che mi ha detto Enrico quando mi sono spostato da lui per lavorare è “Mi raccomando Alessandro, tanta NASA”. Io in quel momento penso “che vuol dire tanta NASA?”, mi sono preso l’appunto mentale e dopo due giorni mi ripete: “Alessandro tanta NASA”. Capisco che è importante allora apro il mio quadernone e scrivo a tutta grandezza “tanta”, riempiendo il foglio, e in quello accanto “NASA”. Glielo faccio vedere e gli dico “basta così?”, e lui mi fa “Potrebbe essere sufficiente”. Quando ho capito che era importante fare una ricerca sulle immagini spaziali, cioè sull’immagine delle agenzie spaziali, non mi sono chiesto quali o quante, semplicemente abbiamo cercato di recuperare tutte quelle che potevamo. Questa è l’immediatezza di cui parlo, che poi è uno degli elementi costitutivi del film che ha incontrato immediatamente un risvolto. E questo è avvenuto per esempio anche con la scena di Monza e altre, erano tutti dei quadri indicativi che Enrico aveva perfettamente chiaro sin dall’inizio. Nello stesso momento, per quanto lui avesse chiaro, avesse il desiderio di questi elementi, non voleva, e né aveva voglia, incasellare questi strumenti all’interno di una struttura teorica filmica precostituita. Questo secondo me ha determinato molto la poetica, ossia la maniera di costruire una forma di visione. Dico sempre che abbiamo costruito un campo. La cosa che si deve e Enrico, e che io non smetterò mai di riconoscergli, è che ti coricavi la sera su un campo e l’indomani mattina le linee che ne determinano il confine si erano spostate ancora un po’; riuscire a stare all’interno di una dimensione in cui possibile e impossibile coesistono, la parola non viene sciupata e ogni idea è un tentativo quasi immediato. C’è stato tantissimo silenzio nel lavoro, però quando dicevamo una cosa era una cosa molto ragionata, cioè molto sentita, priva di ambiguità, priva di equivoci, andava verso una direzione quindi poteva diventare immediata.

A proposito di Nasa, verrebbe da pensare che un film così sarebbe da spedire nello spazio profondo per presentare l’umanità oltre ogni confine, i suoi ultimi giorni

L’ho letto anche in qualche altro commento, tipo portarlo come rappresentazione dell’umanità su Marte. Bellissimo. Sul titolo torniamo a come abbiamo lavorato: io e Enrico eravamo in silenzio, stavamo guardando e ascoltando dei nastri, a un certo punto lui dice “Gli ultimi giorni dell’umanità” e io taccio, dopo un’ora gli chiedo “ma parli del titolo?”. È diventato immediatamente il titolo, senza discuterlo mai. Poi ci siamo raffrontati con questa cosa, e siamo giunti all’idea che siamo in un’epoca di apocalissi a buon mercato, e forse l’apocalisse a buon mercato è proprio costitutiva dell’essere umano, perché il rapporto con la sua finitezza vede sempre la possibilità di una fine conclusiva comune, forse meno dolorosa. Ma a parte questo, il problema è che noi non vogliamo lavorare su questa logica di apocalisse. Allora, lavorandoci, confrontandoci anche con gli altri, ragionando, alla fine Gli ultimi giorni dell’umanità l’abbiamo anticipato in quel momento in cui l’umanità è una qualità dell’essere umano, e questa qualità dell’essere umano esiste probabilmente nel momento in cui coesistono due elementi: la capacità di trovare dei sentimenti e la capacità di esprimere una libera volontà.

Ma questa idea lo devi incarnare, ci devi credere, in un certo senso. E la capacità di provare sentimenti, quindi anche la commozione, anche la rabbia in alcuni momenti, un grandissimo divertimento e la libera volontà, sono stati elementi costitutivi di tutta la fase di creazione. Per cui quando tu mi dici che ti ha colpito la scoperta, mi emoziono molto. Perché era quello che volevamo, noi ci siamo messi in questa condizione di umanità per scoprire, per scoprirci. E che cosa possiamo voler dare allo spettatore? Se ci rivelassimo all’altezza, di certo restituire la stessa scoperta.

Nel come avete proceduto, mi sembra che oltre a tanta teoria e ricerca poetica, ci sia stato spazio anche per un certo misticismo. Di certo una fede nel potere delle immagini

È molto chiaro quando nel film si dice: “Beh, alla fine che cosa ci vuole? Tanta pazienza, tanto senso politico e tanto senso mistico”. Il mistico che noi abbiamo messo in campo, e che a mio parere è uno sforzo mai vano, è quello di tentare comunque di costruire un vissuto che valesse la pena. Ti faccio un’ipotesi: potevamo anche impostare tutto quanto il discorso con i film che per Enrico sono testimonianza di una vita e accanirsi su questo punto. E quindi utilizzare lo scopo in maniera prioritaria rispetto alla relazione. Ma invece il senso mistico sta nel dire: ma è possibile che tra esseri umani si possa svolgere anche una libera volontà di scoperta, di ricerca, di bel tempo speso, di gioco e capacità di stare all’interno del rischio? Siamo stati una produzione che prima ha scelto tutti quanti i film che voleva utilizzare e poi ha iniziato a ragionare sulle cose. Probabilmente non è stata proprio la cosa più semplice di tutte.

Però questo senso mistico, secondo me, poi arriva e io lo leggo anche in una forma di credo. Ho personalmente creduto molto che potessimo arrivare a qualcosa che fosse all’altezza delle persone che lo stavano facendo. Quindi c’è una battaglia ancora più complicata se tu pensi che all’interno di questo lavoro non ci sono soltanto le persone che lo stanno facendo e che lo firmano, ma dei destini personali molto in primo piano. In questo senso la presenza della famiglia, degli affetti. Cioè immaginati lo spazio: devi essere all’altezza della situazione, già in questa tensione di libertà e scoperta, ma devi stare molto attento al fatto anche che le immagini non possono essere l’occasione da piegare al tuo presupposto bello perché quelle immagini parlano di persone, parlano di momenti molto delicati, e parlano di trascorsi che nel momento stesso in cui si rivedono si confrontano con il mutamento.

Io non ho niente in contrario a ritrovare un senso mistico in questo lavoro. Mi piace la possibilità che la mente umana sia l’esito tra un aspetto razionale e uno trascendentale, cioè la capacità di non stare semplicemente all’interno del mero calcolo. Quindi il mistico, il credere, sono delle cose che mi hanno dato molta forza.

Qual è la cosa più sorprendente, o che non avevi considerato, che ti hanno detto dopo aver visto Gli ultimi giorni dell’umanità

È successo. La prima persona che mi ha veramente stupito da questo punto di vista, e che non smetterò mai di ringraziare, è Renato Berta. Ha lavorato all’inquadramento e alla colorazione del film. Quando finisce la prima proiezione mi dice: “Alessandro io posso avere la fotografia di mia madre e mostrartela. Tu vedi una signora anziana. Io vedo mia madre e tutto il trascorso con lei. Quello che il film mi fa vedere non è, per esempio Enrico, come l’Enrico Ghezzi che conosciamo. Mi fa vedere un uomo, mi fa vedere delle donne, mi fa vedere le figlie, mi fa vedere la moglie, mi fa vedere il figlio, mi fa vedere delle persone e la preziosità di questo lavoro sta nel fatto che l’immagine è stata liberata dal trascorso personale riuscendo a diventare percorso comune, senza essere alterato però nella sua condizione di percorso personale. E questo come accade? incontrare un altro essere potendosi ritrovare, credo sia possibile attraverso il sentimento, che diventa chiave di lettura”. Queste sono le parole di Renato, ma in molti me ne hanno restituito una parte. Una volta mi ha chiamato un’addetta stampa e mi ha detto “sai, ho pianto molto nel film, ci ho rivisto tutta la storia con mio padre”. L’altro giorno, dopo la proiezione qui a Roma ho chiesto a un’amica cosa ne pensasse, e lei mi ha detto: “Alessandro, la vita c’è, ci ho visto la vita, ci ho visti i momenti belli, quelli eccentrici, quelli rapidi, quelli lenti. Ci ho visto la vita”. Una cosa molto bella. E alla stessa maniera ,quando tu dici che ci hai ritrovato la scoperta, mi emoziona molto, perché significa non aver mentito.

Alessandro Cavaggioni
08 Maggio 2023

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