Cinema italiano e generi: amore o diffidenza?

È dedicato al tema di copertina del numero di settembre della rivista 8½, “Chi ha paura dei generi del cinema italiano”, l’incontro al Lido moderato da Gianni Canova e Laura Delli Colli con ospiti i M


VENEZIA – È dedicato al tema di copertina del numero di settembre della rivista 8½, “Chi ha paura dei generi del cinema italiano”, l’incontro al Lido moderato da Gianni Canova e Laura Delli Colli con ospiti i Manetti Bros e Stefano Mordini. Una tavola rotonda senza pregiudizi per discutere sull’apparente diffidenza dell’industria culturale italiana nei confronti del cinema di genere. “Non è un caso che – sottolinea Canova – ancora oggi non esista una storia della letteratura italiana suddivisa per generi, ma è sempre solo presentata per autori”.

Un argomento complicato con varie sfaccettature, in cui l’Italia, sottolinea Antonio Manetti, sembrerebbe in realtà spaventata solo da alcuni dei generi del cinema italiano, proprio quelli che in passato hanno fatto la gloria della nostra cinematografia all’estero – il giallo, il thriller, il poliziesco, il western –  mentre continua a puntare sulla commedia. Un diffidenza dovuta “non tanto al pubblico che finirebbe con l’apprezzare film di genere ben fatti, ma al timore di osare di distributori e autori”.

Un timore dell’industria cinematografica italiana indirizzato piuttosto alla creatività in generale, secondo Marco Manetti. “Il fatto che l’unico cinema di genere cavalcato sia la commedia è dovuto anche a una mancanza di fantasia del nostro cinema e alla difficoltà a costruire storie forti. La commedia spesso fa leva sulla notorietà pregressa degli interpreti, costruendo interi film su protagonisti comici che hanno fatto successo altrove. Ma questo non può accadere negli altri generi in cui a fare la differenza è la storia narrata”. Un cinema, quello di genere, che richiede temerarietà secondo Stefano Mordini perché i generi di solito da un lato estremizzano alcune posizioni e dall’altro tendono a mitizzare la figura del protagonista, un atteggiamento da cui la nostra cinematografia solitamente si tiene lontana. “Ci vuole coraggio e assenza di autocensura”, sottolinea il regista, specificando che i generi riescono ad inserirsi nel mercato solo quando questo è forte. “Per aprire il mercato occorrono delle regole precise, che partano da un presupposto di onestà intellettuale da parte di tutti: autori e industria cinematografica nel suo insieme”.

“Forse uno dei problemi è stato l’eccessivo finanziamento da parte dello Stato”, sottolinea provocatoriamente Marco Manetti: ”È come se da un certo punto in poi si fossero iniziate a fare storie che piacessero più alla commissione ministeriale che al pubblico stesso”. Aspetto che trova d’accordo anche Stefano Mordini: “Personalmente toglierei il finanziamento pubblico raddoppiando però gli investimenti sulla distribuzione”.

Anche se l’atteggiamento generale nei confronti del cinema di genere ultimamente sembra stia cambiando, come sottolinea Gianni Canova ricordando il recente successo di pellicole come Veloce come il vento e Lo chiamavano Jeeg Robot, ma anche l’attenzione del web rivolta a questo tipo di storie. “La questione è che bisognerebbe arrivare a rendere tutto questo più sistematico e avere un’industria culturale che non aspetti la novità nell’approccio dell’autore ma per prima la proponga”.
Un altro aspetto toccato nel dibattito è stato quello della disciplina. Il genere necessariamente implica canoni e regole precise entro cui muoversi. Una caratteristica che non ha impedito storicamente grandi espressioni culturali – pensiamo a Dante, alla storia dell’arte moderna o al ‘rivoluzionario’ Caravaggio – ma che da un certo punto in poi sembra essere diventata quasi un peso per l’espressione creativa.

Carmen Diotaiuti
07 Settembre 2016

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