Fanny e Margarethe: prima attrici poi registe

Dialogo al Bif&st tra l’attrice Fanny Ardant dove presenta la sua terza regia, Le divan de Staline e la regista Margarethe von Trotta. Il loro primo incontro è avvenuto sul set di Paura e amore, 1988


BARI. Il loro primo incontro è avvenuto sul set di Paura e amore (1988) immerso nella nebbia di Pavia. “Eppure  il clima era così festoso e tu, Margarethe, eri così appassionata” ricorda l’attrice Fanny Ardant nel corso della master class condotta da Felice Laudadio al Bif&st. “Era un momento triste della nostra vita, ma era un pozzo di tristezza anche il mio film”, replica la regista e presidente del Bif&st Margarethe von Trotta, che ha ricevuto ieri le chiavi della città.
Un percorso simile le avvicina, entrambe hanno cominciato la carriera come attrici per poi debuttare nella regia. “Adoro essere attrice, un lavoro che non abbandonerò mai, ma qualche volta clandestinamente passo dietro la macchina da presa. E’ accaduto quando ero impegnata a teatro e trascorrevo lunghi pomeriggi liberi scrivendo storie strane. E alla fine un produttore, Paulo Branco, ha creduto nelle mie capacità. Non è facile fare film un po’ strani, non faccio parte dell’industria, mi considero un’artigiana del cinema che lavora in silenzio”.

Il suo terzo film da regista, presentato al Bif&st, è Le divan de Staline, tratto dall’omonimo romanzo di Jean-Daniel Baltassat, con Gérard Depardieu nei panni di Stalin, Emmanuelle Seigner e Paul Hamy. Il film è ambientato nell’Unione Sovietica degli anni ’50, in un castello nel mezzo di una foresta che ospita Stalin, la sua amante e un giovane artista che deve presentare l’opera che celebra il dittatore.
Film che affonda nel grande interesse della Ardant, fin da ragazza, per l’arte e la storia russa del ‘900, dal terrore stalinista ai dissidenti. “Volevo realizzare un film su come una persona si comporta davanti al potere, su cosa perdiamo della nostra anima. E Stalin è l’immagine dell’assolutismo. Non mi importa che Depardieu non somigli  al dittatore sovietico perché  è stato bravissimo a interpretare questo simbolo del potere, dalla voce dolce che mai urla, calcolatore e subdolo, calmo e odioso”.
“Depardieu non è forse amico di Putin, dunque avrà avuto davanti un modello perfetto”, scherza von Trotta. “La verità è che Gérard è un avventuriero, un uomo libero, parla senza pensare alle conseguenze delle sue parole. E comunque non ha mai fatto l’apologia di Putin”, precisa la Ardant.

Anche la Von Trotta inizia la carriera cinematografica come attrice a metà degli anni ’60 per poi abbandonarla al suo esordio nel 1975 con Il caso Katharine Blum, codiretto con l’allora compagno di vita Volker Schlöndorff, da un romanzo di Heinrich Boll. “Da giovane ho vissuto gli anni della Nouvelle Vague a Parigi, frequentando i cinema del Quartiere Latino. Vedendo i film di Ingmar Bergman è nato il desiderio di dedicarmi alla regia, ma all’epoca non c’erano le donne registe, a parte Agnès Varda. Ho preso lezioni di teatro, ho interpretato film per Fassbinder, per mio marito Schlöndor, aspettando sempre, come un animale, di compiere il salto, avvenuto solo dieci anni dopo”.
La Ardant ricorda che François Truffaut fu il primo regista a darle fiducia completa a lei attrice teatrale, nonostante all’epoca teatro e cinema fossero due mondi separati.

Tenero è il ricordo di Vittorio Gassman, suo collega in alcuni film, cui è dedicata la Retrospettiva del Bif&st: “Un grande timido che nascondeva di esserlo, impaziente, malinconico, la sua vera passione era il teatro, ma non sono riuscita a trascinarlo sui palcoscenici di Parigi”, dice la Ardant. E altrettanto affettuoso è il suo ricordo di Ettore Scola che lavorava con eleganza, dolcezza, ironia. “Io ho conosciuto Scola a Venezia un anno dopo Anni di piombo, da allora è sempre venuto alle mie proiezioni e alla fine mi diceva ‘Ma non si ride mai nei tuoi film’, il mio cinema per lui era troppo tedesco”, afferma von Trotta.
Infine sulla scelta degli attori, per la regista “la cosa più importante è amarli, loro hanno tanta paura di stare davanti alla macchina da presa. Bisogna fare attenzione perché sono vulnerabili. E nello stesso tempo va lasciata loro la libertà di inventare e mostrare quel che sentono. Correggerli solo quando vanno fuori rotta. Ci sono attori con i quali c’è subito sintonia e altri con i quali occorre tempo per capirli. Come diceva Chabrol, una volta scelto l’attore giusto, il lavoro è già finito”.

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