La satira di Östlund batte l’Aids di Campillo

Nell'anno del 70° compleanno la Francia sfiora la Palma d'oro ma si deve accontentare del Grand Prix andato a 120 battements par minute di Robin Campillo


CANNES – Nell’anno del 70° compleanno la Francia sfiora la Palma d’oro ma si deve accontentare del Grand Prix andato a 120 battements par minute di Robin Campillo. Il massimo premio incorona invece lo svedese The Square di Ruben Östlund. Però a giudicare dalla grande ovazione che ha accolto Campillo nel Grand Theatre Lumière la platea era tutta per lui e certamente anche il cuore del presidente della giuria, Pedro Almodovar. Il 52enne Campillo, nato in Marocco e cresciuto a Aix-en-Provence, a lungo collaboratore di Laurent Cantet, ha fatto un film sincero e sentito, ben scritto e ben ritmato, su una vicenda che l’ha toccato personalmente: il suo terzo lungometraggio racconta infatti le lotte di Act Up Paris, l’associazione di sieropositivi e malati di Aids che, all’inizio degli anni ’90, cercava di portare la malattia fuori dall’ombra e di sensibilizzare il governo francese a fare prevenzione. E contemporaneamente racconta una storia d’amore grande e tragica, alla Philadelphia, tra due giovani uomini, uno dei quali gravemente malato. “Portare questo film al festival è stata un’emozione forte”, ha detto il regista, rendendo omaggio a chi è morto nella battaglia contro una malattia dal forte valore simbolico “ma rendendo omaggio anche a chi è sopravvissuto con molto coraggio, in situazioni precarie dovute all’ipocrisia di chi ha messo la loro vita tra parentesi”.

Tutt’altro tono per Ruben Östlund, vincitore di un Palma che non piacerà a tutti, almeno a giudicare dalle prime reazioni in sala stampa. Eppure The square è una efficace satira dei nostri tempi, della contrapposizione tra le classi, o forse sarebbe meglio dire tra le caste: siamo infatti nel mondo dell’arte contemporanea, un mondo chiuso e solo apparentemente politically correct, ma che vacilla al contatto con le periferie. Una metafora evidentemente della chiusura della società occidentale. Ironico, beffardo, a tratti animato da uno spirito moralizzatore, il film – a dispetto della sua durata forse eccessiva di due ore e mezzo – potrà incontrare il pubblico facilmente. Il 43enne cineasta, vecchia conoscenza di Cannes dove aveva presentato anche Forza maggiore, vincitore a UCR, l’ha buttata sul ridere, ringraziando tra gli altri anche la scimmia che si vede nel film – “ha un po’ esagerato con la recitazione” – e invitando la platea a lanciarsi in un urlo di felicità: “Contate fino a tre e poi gridate tutti insieme!”.

Un premio quasi inevitavile è quello speciale del Settantenario andato a Nicole Kidman, attrice prezzemolo di questa edizione (era in due film del concorso, The Killing of the Sacred Deer e The beguiled, in uno fuori concorso, How to talk to girls at parties, e in Top of the Lake). Nicole è già tornata a casa, in Tennessee, e quindi tocca al connazionale Will Smith ricevere la pergamena. L’attore la imita parlando in francese e piangendo e va anche farsi le foto al posto suo. Poi parte un video in cui la diva si dice “affranta” di non essere qui e ringrazia il festival per averla fatta entrare nella sua storia. Assente è anche Sofia Coppola, premio per la regia con il remake del film di Don Siegel La notte brava del soldato Jonathan. La regista americana manda un biglietto che la giurata Maren Ade legge non senza inciampi. Ringrazia il fratello Roman, il padre Francis (“che mi ha insegnato a girare e scrivere”), la madre (“che mi ha incoraggiato”) e Jane Campion, “un modello per le registe”, l’unica donna ad aver vinto la Palma d’oro. Del resto lei stessa è la seconda donna in assoluto ad aver vinto il premio per la regia dopo la russa Yuliya Ippolitovna Solntseva a cui andò nel 1961.                                                                  
Altro giro altro show, quello di Joaquin Phoenix, premiato come miglior attore per la perfomance di violento vendicatore di baby prostitute in You Were Never Really Here. Il premio lo coglie del tutto di sorpresa, forse perché preceduto da un riconoscimento alla sceneggiatura per lo stesso film e sul palco appare quasi ipnotizzato. “E’ totalmente inaspettato. Scusate le scarpe”, dice indicando le sue sneakers. E poi: “Non so cosa dire, sono senza parole”.

Miglior attrice è, meritatamente, la tedesca Diane Kruger, intensa interprete di Aus dem Nichts del turco tedesco Fatih Akim, storia di una madre che si vede strappare marito e figlioletto in un attentato e reagisce in modo estremo, con un gesto autodistruttivo. “Grazie Fatih, fratello mio, per avermi dato la chance di fare questo film. E non posso non pensare a tutti coloro che sono stati colpiti da un atto di terrorismo e devono ricominciare dopo aver perso tutto, non dimentichiamoli”.

Ex aequo un po’ incongruo per la sceneggiatura che si divide tra The Killing of the Sacred Deer di Yorgos Lanthimos e Efthimis Filippou e a You Were Never Really Here di Lynne Ramsay (ancora), film certamente più di regia e visione che di scrittura e dialogo. Prix du jury al russo Zviagintsev per Loveless, sicuramente uno dei film più impressionanti della selezione, che avrebbe meritato di più. 

Madrina della serata una Monica Bellucci sempre molto bella ed elegante ma un po’  ingessata, che ha aperto il suo discorso difendendo la violenza al cinema, perché “niente è più violento della realtà e il cinema è solo uno specchio che può guarire le nostre ferite”, e l’ha chiuso auspicando un maggior numero di registe donne in futuro. Caméra d’or per l’opera prima alla francese Léonor Serraille per Jeune femme. In definitiva, insieme a Lynne Ramsay e Sofia Coppola, sono state tre le autrici premiate stasera, ed è un bel segnale. 

Tra gli assenti ingiustificati dal palmarès, a nostro avviso, Radiance di Naomi Kawase e Good Time dei fratelli Safdie. Gli altri film importanti – in un’annata non memorabile – ci sono tutti, ma in qualche caso nell’ordine sbagliato…  

Cristiana Paternò
28 Maggio 2017

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