Fuorinorma, il cinema neo-sperimentale trova casa

Si apre con un doveroso ricordo di Americo Sbardella, creatore del Filmstudio '70, e si chiude con l'annuncio della nuova iniziativa di Adriano Aprà, che darà visibilità al cinema neo-sperimentale


PESARO – Si apre con un doveroso ricordo di Americo Sbardella, creatore insieme ad Annabella Miscuglio del Filmstudio ’70 di Trastevere. E si chiude con l’annuncio della nuova iniziativa di Adriano Aprà, Fuorinorma, che darà visibilità al cinema neo-sperimentale italiano (leggi l’anticipazione di Cinecittà News) attraverso un circuito di venti luoghi di proiezione a Roma, sale alternative al cinema industriale, dove si vedranno 20 film a partire dal 26 ottobre. 

In mezzo c’è l’insofferenza, l’esuberanza, la difficoltà di comunicare e una certa dose di velleitarismo dei giovani autori ospitati in Satellite, la sezione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro curata da Anthony Ettorre, Annamaria Licciardello, Gianmarco Torri e Mauro Santini. Sottotitolo (che non piace a tutti) Visioni per il cinema futuro. Sono presenti un pugno di autori chiamati a dialogare in questa seconda edizione della rassegna, che ha raccolto i lavori fuori formato e underground in capitoli dai titoli suggestivi: Cartografie transitorie, This is not a Love Song, Quello che non ho visto, Passaggi di stato, Manovra di compensazione, Zone temporaneamente autonome. Emergono in una buona metà dei partecipanti una certa idiosincrasia per la critica, un desiderio di autogestione, una scarsa propensione a cercare un pubblico potenziale, per quanto di nicchia.  

Daniele Pezzi, autore di Tiresias, un personaggio in tre corpi (60′), sottolinea quanto sia sempre più difficile mostrare lavori che non sono strettamente cinema. “Un autore non interessato a relazionarsi con l’industria ha problemi a trovare spazio anche nei festival”. Walter Ronzani (che ha portato qui a Pesaro i 4′ di Through the Looking-Glass) insiste sulle griglie che impongono caratteri definiti ai lavori artistici: i tempi influiscono sulla ricerca in tutti i sensi, nel bene e nel male. Il veterano Giovanni Cioni, cineasta ben noto nei circuiti sperimentali a cui il Festival Visions du Réel di Nyon ha dedicato una personale nel 2011, firma con Viaggio a Montevideo (56′) un film sopralluogo tra la Val d’Aosta e le reminiscenze della biografia del poeta Dino Campana, ai cui Canti Orfici il film è in parte ispirato per i testi che accompagnano la ricerca libera da condizionamenti tematici ma visivamente affascinante. “Il mio cinema corsaro è iniziato con Giovanni Davide Maderna e Tonino De Bernardi”, spiega il 55enne Cioni. E sulla denominazione “satellite” aggiunge: “Bisogna lanciarlo in orbita dalla Terra, che è un satellite a sua volta, Pesaro è un luogo d’incontro. Ben venga perché non voglio stare in una riserva indiana ma disturbare”. E sempre Cioni è quello che sembra più interessato al confronto con la mediazione intellettuale della migliore critica: “L’opera deve essere più intelligente dell’autore”.

Per Emanuele Marini (Non chiudere gli occhi su una tragica vicenda della biografia familiare) “la risposta al mio corto è stata deludente. L’ho mandato in tanti festival ma c’è stato un freddo glaciale che mi ha lasciato solo. E allora il satellite Luna lenisce le ferite dei pastori erranti”. Piuttosto polemica la milanese Maria Giovanna Cicciari (suo è Atlante 1783 sul terremoto che ha colpito la Calabria alla fine del Settecento). “Satellite non è cinema del futuro ma cinema del presente e vorrei vedere questi film in Piazza del Popolo, davanti al grande pubblico, non in una piccola sala come la Pasolini. Chi fa cinema sperimentale viene considerato in un limbo tra cinema e arte visiva, invece bisognerebbe far capire che questo è cinema”.

Maurizio Marras
(Piccolo film di un albero, 5′ 20”) si chiede cosa stiamo vedendo e come stiamo vedendo. Maurizio Mercuri (Una fine e un inizio, ancora un lavoro autobiografico, il diario sembra prevalere in tanti percorsi) critica la collocazione di Satellite in contemporanea con le proiezioni dei film sperimentali di Nicolas Rey, rivolte allo stesso tipo di spettatore. Saverio Cappiello (Jointly sleeping in our own beds, 64′ di storia d’amore a distanza tra telefonini e skype) rivendica infine l’evidente rottura tra l’arte e il mercato: “Mio padre mi ha spiegato come si fa ad essere felici quando avevo appena 11 anni. Lì ho capito cosa era il capitalismo: i soldi, la frenesia, la routine. L’arte mi è sembrato il modo per evadere da tutto questo, ma anche l’arte può ricadere nel mercato”.

Cristiana Paternò
21 Giugno 2017

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