Questi fantasmi, così Rondalli rilegge Potocki

Una narrazione a scatole cinesi che nasconde dentro di sé un percorso iniziatico. Ecco l'inconsueto Agadah Sogni e avventure di Alfonso van Worden che riporta alla regia Alberto Rondalli


Una narrazione a scatole cinesi che nasconde dentro di sé un percorso iniziatico. Ecco l’inconsueto Agadah Sogni e avventure di Alfonso van Worden che riporta alla regia Alberto Rondalli, autore lombardo 57enne, formato alla scuola di Ermanno Olmi e allievo anche di Kieslowski ed Eugenio Barba. Noto per titoli come Quam mirabilis (1993) e Il Derviscio (2001), stavolta si è cimentato con il celebre testo di Jan Potocki, il Manoscritto trovato a Saragozza, un classico della letteratura europea scritto in francese all’inizio dell’Ottocento, ambientato nella Spagna del secolo precedente, già portato al cinema nel 1964 dal polacco Wojciech Has (ma aveva affascinato anche Bunuel). Considerato una sorta di Decamerone nero, il libro si articola in 66 giornate in cui il narratore Alfonso van Worden incontra una serie di personaggi che, a loro, volta, raccontano storie in cui sono contenute altre storie. E sono vicende di fantasmi, scheletri animati, gitani e impiccati, patti col diavolo e inquisitori, un mondo di avventure dietro cui si celano conoscenze misteriche come la kaballah, un mondo in cui cristiani, ebrei e musulmani si incontrano e i personaggi femminili, spesso a due a due, emanano un fascino irresistibile e fortemente erotico che viene invano passato al vaglio della ragione illuminista.

“Da tempo – racconta Rondalli – volevo fare un film da quel libro, avevo la sceneggiatura nel cassetto dal 2000 e avevo già fatto i sopralluoghi in Spagna, poi tutto si è bloccato. Era un progetto talmente ambizioso che ho dovuto aspettare di incontrare Pino Rabolini, un imprenditore che ha accettato la sfida”.

Trasferita dalla Spagna alla Murgia pugliese, la vicenda si concentra su dieci giornate, quelle del viaggio di Alfonso verso Napoli e in particolare la tappa notturna in una locanda stregata: “Il film è decisamente una riduzione – spiega ancora il regista – per questo è intitolato Agadah, che in ebraico indica il ‘narrare’ nelle sue varie accezioni. L’opera di Potocki è titanica perché vuole appunto narrare in tutti i sensi ed anzi esaurire la narrazione. Compito impossibile, ed ecco perché sia Potocki che il suo alter ego letterario Diego Hervas finiranno per suicidarsi. Potocki si sentiva incompreso dai suoi contemporanei e questo lo portò alla depressione”.

Con echi di Cervantes, Le mille e una notte e, appunto, il Decamerone, Agadah è un film corale con un cast interessante. Il giovane ed ingenuo cavaliere Alfonso è Nahuel Pérez Biscayart (protagonista di 120 battiti al minuto), poi troviamo Jordi Mollà, Caterina Murino, Alessandro Haber, Umberto Orsini, Alessio Boni, Valentina Cervi, Ivan Franek, Flavio Bucci, la rivelazione dell’ultima Mostra di Venezia Federica Rosellini.

Tra i personaggi appunto Belial, incarnazione mefistofelica che propone una relativizzazione dell’etica per meglio corrompere la sua vittima: “Per gli insetti che vivono sui fili d’erba la pecora è un mostro pronto a divorarli, mentre la tigre è un animale buono che li vendicherà attaccando la pecora”. “Ogni personaggio – prosegue Rondalli – è una modalità esistenziale, in Potocki c’è anche molta autoironia, si serve dell’esoterismo e della filosofia per distaccarsi dalla realtà. Era un uomo coltissimo, conosceva undici lingue”.

Per Alessio Boni, il film “è un tentativo onirico e folle alla Cervantes. Sappiamo che non è il genere di film che va oggi, ma mi ha portato dentro la follia dell’essere umano”. Valentina Cervi sottolinea l’ambiguità e la libertà di tutti i personaggi femminili. Umberto Orsini, che ha girato durante le pause di un impegno teatrale con un testo di Arthur Miller, loda “il coraggio produttivo di un film all’antica in un cinema italiano che invece insegue le mode”. Federica Rosellini racconta che anche nelle scene di nudo integrale si è sentita protetta e tranquilla, “c’era qualcosa di lieve e poetico nella narrazione”.

Quanto agli effetti visivi, il regista sottolinea come sia stato importante non contraddire l’impostazione estetica dell’opera. “Ho cercato di salvaguardare una visione pittorica alla Salvator Rosa, per esempio usando scheletri veri che abbiamo fotografato per poi creare modelli tridimensionali. Gli effetti digitali non sono stati molto costosi, sui 200mila euro, però hanno richiesto molto tempo e molta cura”. E ancora sul look del film, racconta il lavoro con il direttore della fotografia Claudio Collepiccolo con tanti riferimenti pittorici da Caravaggio a Georges De La Tour, da Fragonard all’Oriente rivisitato dai pittori del Settecento. 

Cristiana Paternò
10 Novembre 2017

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