Dalla Germania un mistery sulla generazione senza orizzonti

​Premio del pubblico al Torino Film Festival 2016, Noi siamo la marea di Sebastian Hilger arriva in sala dal 21 giugno con Mariposa Cinematografica


Un Premio del pubblico che forse solo il pubblico cinefilo, attento e rigoroso del Torino Film Festival poteva assegnare è quello andato al film tedesco Noi siamo la marea di Sebastian Hilger, in sala dal 21 giugno con Mariposa Cinematografica e vincitore del riconoscimento due anni fa. Un film inconsueto, un mistery con venature di fantascienza che tocca temi ecologisti con qualche spunto messianico e un retrogusto politico, perché è anche un atto d’accusa contro la perdita di orizzonti e speranze di un’intera generazione. Ma soprattutto un film che si nutre della luce opaca e spenta di una località ai limiti dell’Europa settentrìonale, la spiaggia del paese immaginario di Windholm sul Mare del Nord, mettendo in scena un crepuscolo della civiltà in cui l’essere umano finisce per essere quasi un marziano se non una presenza superflua. Tra gli echi cinematografici, appare in controluce anche un modello ineguagliabile come Stalker di Tarkovskij.

A Windholm, il 5 aprile del 1994, l’oceano si è improvvisamente ritirato per non tornare con l’alternarsi delle maree, come era sempre accaduto. E’ come se la natura si fosse sottratta alle sue leggi che crediamo eterne e, contemporaneamente, sono svaniti nel nulla anche tutti i bambini del paesino come se il mare li avesse risucchiati. Il mistero è fitto – forse paranormale – ma un giovane fisico dell’università di Berlino (Max Mauff già visto ne L’onda) decide di sfidarlo, sfidando anche l’ambiente accademico che non lo autorizza alla ricerca e non vuole finanziarlo. Insieme alla sua ragazza parte in macchina alla volta di Windholm per verificare la sua teoria su quello che potrebbe essere accaduto vent’anni prima. Il luogo, in piena decadenza umana e sociale, dominato dal dolore e dalla rabbia, è presidiato dalla polizia e considerato off limits, come se dietro la duplice sparizione si nascondesse qualche complotto non rivelabile all’opinione pubblica. 

“Ci chiamano la generazione Y – spiega il 34enne regista qui al suo secondo lungometraggio – ci hanno cresciuti facendoci credere di essere speciali e in grado di cambiare il mondo con le nostre idee e le nostre scelte. Ma continuiamo a sbattere contro porte chiuse. Siamo sempre in attesa del prossimo contratto a tempo determinato, del prossimo subaffitto, della prossima relazione a breve termine. Siamo intrappolati tra le incertezze. E’ questa la vita o deve ancora cominciare? Il mio film parla della delusione di un’intera generazione e della sua determinazione ad andare comunque avanti”. 

Cristiana Paternò
14 Giugno 2018

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