Quella “home in Libya” di Martina Melilli

Presentato Fuori concorso a Locarno il film italiano che parla di Tripoli


Locarno. Le case hanno un’anima? O meglio, quanto rimane delle anime che le abitano dentro di loro? E qual è la casa vera quando la geografia dell’atlante non corrisponde a quella interiore?

Queste sono solo alcune delle domande che si pone Martina Melilli, video artista specializzata nel cinema documentario, nel suo film My home, in Lybia, uno dei titoli italiani selezionati quest’anno al Festival di Locarno. Il film è stato presentato oggi nella sezione Fuori concorso; la Melilli lo ha scritto e diretto e ne è anche interprete. La storia che racconta My home, in Libya infatti è quella familiare della stessa autrice. Una storia che comincia in Libia nel 1936 con la nascita di suo nonno, Antonio, già figlio di una coppia di immigrati siciliani (anche suo padre nascerà lì), e che continua fino al 1970 quando l’arrivo del colonnello Gheddafi costringerà tutti gli italiani che abitano il paese a tornare in patria. Anche la famiglia Melilli rientra quindi in Italia, stabilendosi vicino a Padova, ma il cuore rimane a Tripoli che diventa subito il luogo idealizzato di un passato mitico (“quando ero bambina, ad esempio, mi chiedevo perché noi fossimo l’unica famiglia in un paesino del Veneto a mangiare il cous-cous il giorno di Natale”).

E nelle acque di questo passato mitico Martina si immerge completamente, percorrendo col suo film un viaggio a ritroso per ricostruire quel pezzo di memoria che non solo non ha vissuto, me che non le è stato trasmesso: “E’ stato faticoso convincere i miei nonni a raccontare la loro esperienza in Libia – spiega la Melilli – è un ricordo che né loro né mio padre hanno mai voluto condividere con me, per una serie di ragioni personali. E infatti prima di questo documentario, mancandomi la loro testimonianza diretta, ho lavorato ad un altro progetto più generale, Tripolitalians, una raccolta di memorie degli italiani che hanno vissuto a Tripoli. Un materiale molto ricco che mi ha permesso di realizzare una mostra e di organizzare intorno a questo tema un archivio multimediale molto preciso della comunità libico-italiana sparpagliata per l’Italia dopo il 1970, archivio a cui cui ho attinto a piene mani anche per il film. Parte del progetto sarebbe stato andare in Libia di persona ma il tempismo storico non è stato dalla mia parte, quando mi sono organizzata per partire sono cominciati i disordini politici e poi la guerra civile… insomma, il viaggio è diventato metaforico a tutti gli effetti”.

Eppure la sua ‘home in Libya’ Martina la ritrova lo stesso, grazie a chi può compiere quel viaggio per lei: Mahmoud, un ragazzo di Tripoli, conosciuto su Facebook, che attraverso le foto e i video fatti di nascosto dalla sua auto ci mostra la vecchia abitazione dei nonni e come si sono trasformati, nella realtà, i luoghi idealizzati dal ricordo. “La presenza di Mahmoud – un nome di fantasia che abbiamo deciso insieme perché la sua identità non fosse nota e quindi perché non corresse pericoli – ha cambiato radicalmente l’idea iniziale di questo film, ma mi ha permesso di renderlo più interessante, di raccontare, attraverso il passato cos’è il presente, e il concetto ormai ‘liquido’ di casa per le nuove generazioni. Ma Mahmoud rappresenta anche il luogo in cui vive, una Libia molto diversa da quella che si ricorda mio nonno, in cui tanti giovani della sua età sono cresciuti e si sono formati proprio nel momento in cui è venuta a mancare un’identità collettiva precisa perché il Paese era diviso da violenze e interessi contrapposti, e nonostante questo hanno continuato a cercare in quel caos la strada per il proprio futuro. Credo che Mahmoud abbia deciso di aiutarmi perché il suo viaggio non è tanto dissimile da quello che ho tentato di intraprendere: io cercavo parte delle mie radici, e lui che non si è mai spostato dal suo Paese di origine, aveva bisogno di andare altrove, di parlare con qualcuno di cui si potesse fidare per evadere dalla realtà claustrofobica e violenta in cui si è ritrovato a vivere. E poi c’è stata sicuramente la curiosità per l’Italia, un Paese che è parte della storia della Libia, e verso la quale i libici hanno un sentimento contraddittorio: si tratta infatti del Paese che li ha invasi, ma che i più anziani riconducono ancora ad un momento storico in cui la popolazione ha potuto godere di un certo benessere”.

Ma la figura di Mahmoud, presenza completamente virtuale sia nel film che nella vita di Martina è utilizzata in My home, in Libya anche per indagare il difficile rapporto tra le nuove generazioni e i social, “che hanno creato un maggiore divario fra ciò che si immagina e ciò che invece è nella realtà, alimentando da una parte un ‘consumismo affettivo’ che spinge a conoscere sempre più persone per cercare sempre qualcosa di meglio, la logica dell’ultimo modello, e dall’altra parte tengono lontani dall’esperienza vera dei rapporti umani e sentimentali”.

Ed è anche per questo, ammette Martina, che “Mahmoud ed io non ci siamo ancora mai incontrati, non ci siamo nemmeno mai parlati via skype: ci scriviamo soltanto. E questo crea una sensazione di protezione, in cui ci si sente molto più liberi di esporsi, di esprimersi con sincerità; il rapporto epistolare protegge dallo sguardo dell’altro, da una reale intimità condivisa. Alla fine basta che uno dei due smetta di rispondere, ed è come se non ci fossimo mai conosciuti…”. Dopo tre anni di messaggi su facebook e di comunicazioni rigorosamente scritte però Mahmoud, che nel frattempo si è laureato in ingegneria nucleare e vive a Instanbul, diventerà reale, perché parteciperà alla prima italiana del film: “Un cambiamento che, non lo nego, mi procura un certo timore, ma che in fondo attendo con ansia, sono curiosa di capire come sarà incontrarci dal vivo”.

La proiezione italiana di My home, in libya – che è stato prodotto da Stefilm con ZDF, in collaborazione con Arte, Rai Cinema, e con il sostegno di MIBACT e Piemonte Doc Film Fund –  è prevista a settembre a Milano, nell’ambito del Festival Internazionale del Documentario Visioni dal mondo. “Dopo Milano – sottolinea la Melillo – mi piacerebbe che il film potesse uscire in sala. All’estero siamo distribuiti da Deckert, ma in Italia stiamo ancora cercando una distribuzione. Non escludo che invece della canonica presentazione al cinema, si possa organizzare anche una performance artistica, perché in fondo anche questo lavoro per me non è un fine ma un mezzo”.

Caterina Taricano
03 Agosto 2018

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