Dulcinea: il Don Chisciotte surrealista di Luca Ferri

(Unico film italiano in concorso nella sezione Signs of life di Locarno 71)


Locarno. Come sappiamo dai tempi di Pudovkin, il cinema è anche e soprattutto un accumulo di materiali. Luca Ferri, già selezionato per diversi film nei festival di Venezia e di Torino, arriva a Locarno, nella sezione competitiva Signs of life (unico italiano) proponendo con Dulcinea un accostamento veramente sorprendente. “Miguel Cervantes è uno dei miei autori preferiti – dice Ferri – lo leggo e lo rileggo. In questo Dulcinea Cervantes è presente fin dal titolo, accostato con un altro dei miei miti letterari e cioè Dino Buzzati. Poi ho lavorato anche sul sonoro in un film che non ha dialoghi, e anche qui ho accostato contributi in apparenza inconciliabili: una segreteria telefonica, Julio Iglesias e Enrico Cuccia. Proprio così. E ognuno di loro ha un suo significato”.

E in questa originale interpretazione di Don Chisciotte il significato si compone procedendo per immagini e suggestioni – nessuna di queste affidate al caso – srotolandosi poco per volta lungo il nastro della segreteria telefonica che fa da contrappunto sonoro a tutto il film e che ci trasporta in una Milano anni Novanta. Una Milano livida, raccontata per quadri nella suo mutare da uno skyline in continuo cambiamento. Piccole e impercettibili variazioni simili a quelle che scandiscono il tempo raccontato nell’abitazione in cui Ferri deposita (gli attori sono presenze volutamente grevi e monolitiche) i suoi protagonisti: una giovane donna che svolge le azioni quotidiane più banali di una giornata (si spoglia, si riveste, si strucca, mangia, mette lo smalto ai piedi, fuma, legge) e un uomo (forse proprio Don Chisciotte) che, arrivato all’appartamento della ragazza, si veste da domestico e comincia a pulire la casa.I due si ignorano per tutto il film, non si parlano, non si sfiorano. Ogni tanto l’uomo raccoglie, come se si trovasse sulla scena di un crimine, alcuni oggetti toccati dalla ragazza, li infila in un sacchetto di plastica e li chiude in una ventiquattrore. Alla fine della pulizia se ne va lasciando dei soldi in una busta. Un altro uomo (forse Sancho Panza) attende nell’ingresso, rendendo esplicita la pulsione scopica nei confronti della donna, mentre la voce di una registrazione elenca e spiega, categorizzandoli, una serie di complessi psichiatrici. “Questo film è un film patologico, che lavora sui segni, in cui nulla esiste senza essere voluto. Si è parlato di patologia surrealista. È vero, ma è una patologia che non deriva dall’imitazione di qualcos’altro, arriva in maniera del tutto autonoma, nutrendosi di altri ambiti. Come diceva Carmelo Bene, non si fa il cinema solo con il cinema, perché siamo sempre debitori di altre discipline”. 

Surreale, a tratti grottesco, il film è pervaso dalla stessa ossessione che racconta: di fatto, tutto quello che è contenuto nel film è anche il pensiero che lo sottende. “La patologia del protagonista è un disturbo che si riscontra frequentemente e nel film si mescola con il tema della donna angelicata. Anche se poi il riferimento più grande, che è quello al Don Chisciotte, esprime soprattutto la mia personale idea di cinema: un cinema del fallimento, ma in cui fondamentale è il tentativo. Io sono consapevole di fare un cinema senza mezzi e senza compromessi per il quale è facile essere fraintesi”.

Lo sguardo che Ferri rivolge al passato si traduce anche in una precisa ricerca formale, in una scelta ponderata dei supporti con i quali girare, perché “ogni contenuto deve trovare la sua giusta espressione”. È per questo che, dopo Dulcinea, girato in 16 millimetri, Ferri si prepara ad utilizzare il vhs per il secondo film di quella che lui stesso ha chiamato “trilogia domestica”. “Si tratta di un documentario su un personaggio di Bergamo, Pierino Aceti, un grande appassionato di cinema, e grande collezionista di vhs. Per cinquantadue giovedì sono andato a casa sua, sempre alla stessa ora, per filmarlo e raccontare lo svolgimento di un anno della sua vita.”.Completamente in digitale sarà invece l’ultima parte della trilogia, La casa dell’amore, “che speriamo di chiudere entro il 2019”.

Ancora in fase di sceneggiatura è invece il film che Ferri si prepara a girare con Antonio Rezza e Flavia Mastrella, rispetto al quale il regista afferma: “E’ troppo presto per raccontarvi che film sarà. Quello che posso dire però è che sono onorato che Antonio e Flavia – due veri geni, come prova il Leone d’oro per il teatro del quale sono stati appena insigniti – abbiano accettato di partecipare a questo nuovo film. Per me è un vero onore, uno dei più grandi riconoscimenti possibili”.

Caterina Taricano
07 Agosto 2018

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