Barry Jenkins: quello che la strada non dice

Dopo l’Oscar per 'Moonlight', Barry Jenkins torna con 'Se la strada potesse parlare', in sala il 24 gennaio con Lucky Red


Dopo l’Oscar per Moonlight, Barry Jenkins presenta If Beale Street Could Talk, tratto da un romanzo di James Baldwin del 1974, ‘Se la strada potesse parlare’. In Italia lo distribuirà Lucky Red dal 24 gennaio. Struggente e ben confezionato, passato già a Toronto, con la partecipazione nel cast di Dave Franco, Diego Luna e Pedro Pascal ad affiancare con piccoli ruoli i protagonisti KiKi Layne e Stephan James, oltre a Regina King (Golden Globe come miglior non protagonista) il film racconta la storia di Tish, una donna di Harlem, da poco incinta, intenzionata a tutti i costi a dimostrare l’innocenza del suo fidanzato, accusato di stupro da un poliziotto razzista.

Alla Festa di Roma è passato il 21 ottobre, anniversario della nascita di George Stinney (1929), il più giovane condannato a morte nella storia degli Stati Uniti, dichiarato colpevole per omicidio di primo grado di due ragazzine bianche dopo una camera di consiglio durata meno di dieci minuti, nel corso di un processo durato un solo giorno, da una giuria di soli bianchi. A 70 anni di distanza una giudice della Corolina del Sud ha stabilito che il bambino era innocente.

“I neri – dice Jenkins – hanno subito esperienze terribili fin dalla fondazione dell’America o addirittura del mondo, ma il messaggio del film e del libro è che l’amore, la gioia e la celebrazione della vita e della bellezza prevalgono. Niente ci può distruggere. Conosco il libri di Baldwin fin dai tempi dell’università e trovo fantastico l’equilibrio che si crea tra le sue due anime: quella più romantica e sensuale, perché si tratta comunque di una storia d’amore, e quella critica, che appunto si sofferma su temi come la giustizia e la vita dei bianchi e dei neri in America. Come sceneggiatore e regista cerco di riflettere il modo in cui sono cresciuto da bambino e da ragazzo, ho imparato ad osservare le persone e i loro gesti, i miei film sono basati sugli esseri umani e sull’interazione tra loro, soprattutto sui gesti e sulla loro intimità. Al contempo si tratta di un adattamento, così come lo era Moonlight e dunque bisogna sempre cercare di restare rispettosi dello spirito del testo originale. E’ come se abbracciassi i miei protagonisti per nutrirli, del resto per me, e lo dice anche il film, non c’è differenza tra bianchi e neri, veniamo tutti da una madre. Chi ha ricevuto il nutrimento materno è comunicativo e parla con gli altri, chi non l’ha avuto erige muri che portano all’omofobia e al razzismo”.

Proprio riguardo a Moonlight, è inevitabile la domanda sul ‘pasticcio’ dello scambio di buste alla notte degli Oscar, quando in un primo momento, come vincitore, fu annunciato il concorrente La La Land: “Onestamente ho come un vuoto su quel momento – dice il regista – non credo di aver pensato niente di particolare. Quando ti metti in gioco ci sono delle volte in cui vinci e delle volte in cui vince qualcun altro per cui ok, andava bene così. Lo shock è stato invece quando si è capito che c’era stato un errore, non te lo aspetti, ma io stesso ero molto confuso. Fatto sta che ne sono uscito con un Oscar in mano quindi tutto è bene quel che finisce bene”.

E vincere un Oscar ha i suoi vantaggi: “Quando ho chiamato Diego Luna, per esempio – continua divertito Jenkins – avevo in mente proprio lui per la parte. Mi sono detto ‘glielo chiedo, ma non lo farà mai’, invece ha subito accettato, e così è stato per Pedro Pascal e Dave Franco. Anche se dopotutto penso che lo abbiano fatto perché pensavano che la storia fosse importante e che il libro raccontasse qualcosa di rilevante. D’altro canto tra latinos e neri abbiamo molti problemi in comune oggi, con quel presidente lì. Abbiamo lavorato con un giorno ciascuno, periodi di tempo veramente brevi, per cui era fondamentale che tutti fossero convinti di quello che stavano facendo”.

Andrea Guglielmino
21 Ottobre 2018

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