Dick e Lynne Cheney, la banalità del male

Vice L’uomo nell’ombra di Adam McKay, candidato a sei Golden Globe, arriva in sala il 3 gennaio con Eagle Pictures


Che il motore di una coppia di potere sia la donna è noto almeno dai tempi del Macbeth scespiriano. E Vice L’uomo nell’ombra ce ne dà l’ennesima conferma. Il film di Adam McKay (candidato a sei Golden Globe, tra cui Miglior Film Commedia, Miglior Sceneggiatura e Miglior Regista) ci mostra infatti in azione e dietro le quinte una coppia diabolica che ha in qualche modo cambiato i destini degli Stati Uniti e del mondo. Ed è lei a dare carburante all’impresa con la sua determinazione: Consapevole di non poter raggiungere il vertice in quanto donna se non per mezzo di un uomo, affida a lui la sua infinita ambizione.

Stiamo parlando di Dick Cheney e della moglie Lynne, la vera dura tra i due, che in un aspro confronto nei primi anni del loro matrimonio, gli pone l’aut aut decisivo: o lasci la bottiglia e ti dai da fare per diventare qualcuno o io lascio te. E quel ragazzone del Wyoming che abbiamo visto guidare ubriaco di notte e rotolare nel suo vomito diventa uno degli uomini più influenti del mondo. Ma con un suo stile peculiare, come alter ego di personaggi a cui cede volentieri la prima linea e i riflettori. Nessun passo falso, nessun ostacolo si frappone tra i coniugi Cheney e l’esercizio del potere sfrenato e dissoluto: se la carriera politica di Dick – che diventa repubblicano per mero opportunismo ma sposa poi tutte le dottrine conservatrici e liberticide possibili con granitica coerenza – potrebbe naufragare nel Watergate, anche quella debacle diventa una grande opportunità perché non essere coinvolti direttamente nelle malefatte di Nixon rappresenta automaticamente un passaporto per fare un ulteriore salto di carriera. E neanche i numerosi infarti (il primo a 37 anni) lo fermano. Così anche la proposta di George W. Bush di diventare il suo vice, ruolo tradizionalmente insignificante, si rivela un asso nella manica perché il vicepresidente non è soggetto né al controllo della Camera né a quello del potere giudiziario: di qui le basi per un teorema che smantella garanzie democratiche dopo l’11 settembre.

Ma il film – che si propone come “storia vera” fin dall’inizio – non ha solo l’immenso pregio di svelare i meccanismi perversi del sistema di potere e manipolazione che ha portato in seguito alla presidenza di Donald Trump. Dopo La grande scommessa, Adam McKay continua a sperimentare linguaggi e contaminare generi, il tono satirico ibrida il mockumentary e la denuncia alla Michael Moore; finzione e ragionamento politico si integrano e si sostengono l’un l’altra, con una voce narrante affidata a un cittadino qualsiasi – che si rivelerà avere un ruolo fondamentale nella vicenda – con uno scambio di battute in pentametri giambici tra moglie e marito e persino con un film nel film con tanto di titoli di coda che sembra proporre un lieto fine impossibile.

Ma la famiglia felice, con battute di pesca con la mosca – una delle metafore che percorrono il film – nasconde una vittima immolata sull’altare della convenienza elettorale, la figlia minore, omosessuale, prima difesa dai congiunti e poi scaricata dalla sorella candidata dei Repubblicani e dunque per statuto contraria alle unioni gay.

Vice – L’uomo nell’ombra – che prosegue e rinnova la straordinaria tradizione del cinema civile americano – abbraccia circa cinquant’anni di vita pubblica negli States, dall’amministrazione Nixon al presente: in questo lasso di tempo Christian Bale (come pure la sua partner Amy Adams) si trasforma, invecchia, prende peso, perde innocenza nello sguardo allenato all’intrigo, mettendo a segno una performance da applauso proprio perché poco appariscente. Steve Carell è il suo mentore Donald Rumsfeld, maestro di cinismo che alla domanda “noi in cosa crediamo?” risponde con un sogghigno e sbattendo la porta. Ma l’allievo supererà il maestro. Silenzioso, sempre un passo indietro, costantemente in sordina, diventa l’ombra malefica del giovane e poco esperto George W. Bush (Sam Rockwell), rampollo determinato a seguire le orme del padre, e accanto a lui scatena guerre, mette a punto la dottrina di un esecutivo svincolato da ogni controllo grazie a giuristi compiacenti e tecniche di marketing, triplica i proventi dell’azienda di cui era stato ceo. Basta non parlare di tortura ma di “interrogatorio potenziato” e il gioco di Abu Ghraib e Guantanamo è fatto. E dopo l’attentato alle Torri Gemelle tutto diventa possibile in nome dell’imperativo della sicurezza. Tra le sue “invenzioni” spicca la nascita di Fox News con la morte della par condicio e l’avvento dei “fatti alternativi” alla Trump.

“Non sapevo molto di Dick Cheney – rivela il regista – ma quando ho iniziato a leggere di lui, sono rimasto affascinato da ciò che lo aveva guidato, da quali fossero le sue convinzioni. Ero sbalordito dal modo scioccante in cui arrivò al potere e quanto avesse influito sull’attuale ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Un tassello essenziale del puzzle che ci fa capire come siamo arrivati a questo momento storico in cui il consenso politico è raggiunto attraverso la pubblicità, la manipolazione e la disinformazione. Dick Cheney era l’uomo al centro di tutto questo”.

Cristiana Paternò
24 Dicembre 2018

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