Agnès Varda, da Cléo al MoMA di New York

​La cineasta belga, novantenne, ha ricevuto la Berlinale Kamera e ha presentato in anteprima il documentario Varda par Agnès, una travolgente masterclass sul suo lavoro di regista e artista visiva


BERLINO – “Non vedo bene. Scusate se non saluto qualcuno che conosco, molti di voi giornalisti li ho incontrati tante volte, mi avete intervistato già e d’ora in poi non rilascerò più interviste né terrò conferenze pubbliche”. Così Agnès Varda, accompagnata dalla figlia Rosalie, anche sua produttrice, esordisce incontrando la stampa a Berlino. L’occasione, per la cineasta franco-belga, novantenne, maestra di cinema e di idee, è il conferimento della Berlinale Kamera, il premio alla carriera, e la proiezione del documentario, travolgente per semplicità e umiltà, Varda par Agnès.

Film testamento, verrebbe da dire, data l’età venerabile, ma le quasi due ore di narrazione sprizzano vitalità e nuovi spunti, freschezza e giovinezza, tutt’altro che autocelebrativi sono un invito emozionante a mettersi all’opera e conservare intatta la propria creatività nei decenni, nonostante il tempo che passa, a non fare mai un monumento di se stessi ma continuare a sperimentare.

Il lavoro è bipartito: una prima parte è dedicata alla sua esperienza di cineasta, iniziata nel 1955 con La Pointe Courte, mentre la seconda parte restituisce il suo impegno di visual artist, come ama chiamarlo lei stessa, installazioni in cui ricicla materiali (tra cui la pellicola in 35 mm trasformandola in un capanno) e usa il multimediale per catturare storie e volti (come nel toccante e in parte autobiografico progetto sulla vedovanza). Seguendo tre principi fondamentali (ispirazione, creatività e condivisione), veri pilastri della sua opera, Varda attraversa artisticamente due secoli, una buona metà del XX e due decenni del XXI, vive la Nouvelle Vague di cui è uno dei fondatori, ribalta la posizione della donna da oggetto a soggetto di sguardo in un film che è anche una riflessione sul tempo (Cléo dalle 5 alle 7), rende omaggio all’amore della sua vita Jacques Demy, scomparso nel ’90, a cui dedica Garage Demy e due documentari, con Sandrine Bonnaire ci racconta l’on the road di un personaggio femminile pieno di rabbia e voglia di libertà, irriducibile fino alla morte (Senza tetto né legge, Leone d’oro a Venezia nell’85), dà voce a Jane Birkin in un momento di crisi dell’attrice, allora quarantenne, facendo subito dopo partire con lei un nuovo progetto Kung-Fu Master in cui la rende autrice.

Il suo interesse costante sono i volti, a partire dalle fotografie della prima parte della carriera e fino all’ultimo lavoro, Visages Villages, il documentario realizzato con l’artista francese JR e candidato all’Oscar l’anno scorso, una candidatura arrivata subito dopo l’Oscar alla carriera.

Volti e luoghi che costellano 54 tra film e progetti tv in 62 anni di attività. Non ancora interrotta: “So far so good”, dice con ironia a chi le chiede se Varda par Agnès sia il suo ultimo film. Colpisce per capacità di rinnovarsi, di cogliere temi contemporanei come quello del riciclaggio di oggetti e dell’ecologia nel progetto sulle patate scartate dalla produzione perché troppo piccole o troppo grosse o irregolari che diventano installazione alla Biennale di Venezia con lei, sempre autoironica e bambina, vestita da patata. “Sono affascinata dalle persone, dalle persone che incontro per la strada. Gli squatter, i pescatori, i venditori, tutti. Le persone semplici meritano di essere osservate con attenzione, appena fermi la camera su un soggetto insignificante, questo smette di essere tale”.

Per lei il digitale non poteva che essere una ulteriore svolta, un mezzo leggero, intimo, che non intimorisce chi viene ripreso, che dà libertà. E dunque al digitale si devono gli spunti dal 2000 in avanti che il documentario mette in luce. Varda par Agnès è una master class dove ai monologhi di Agnès si alternano spezzoni del suo cinema e delle sue opere che parlano per lei, perché ogni suo lavoro è personale e intrinsecamente necessario. “Ho parlato tanto di me nei miei film, ho detto tutto quello che volevo dire. Ora mi preparo a dire addio e cerco la pace necessaria”.

Personale e politico, con il femminismo dichiarato e rivendicato. “All’inizio ero una fotografa e c’erano poche donne sia nella fotografia che nel cinema dove sono arrivata poco dopo. Facevo film radicali e con pochi soldi perché non erano interessati a una donna regista, non le davano un budget importante. Ma i miei film erano diversi, erano avventure mentali, nati attraverso l’empatia con le persone”. E aggiunge, rispondendo a una domanda: “Sono sempre stata a sinistra ma non sono mai stata dentro un partito. Nei miei film non ho parlato direttamente di politica ma mi sono presa cura delle persone. Sono stata una femminista gioiosa e ho fatto del mio meglio con i miei film. Ho rispetto per tante registe che non sono premiate, a volte credo che tutti i premi che mi stanno arrivando, dall’Oscar, alla Palma d’oro alla carriera, siano una sorta di alibi, un modo per dimostrare e far vedere che ci tengono al lavoro delle donne”. 

Tra coloro che hanno contribuito al documentario presentato in anteprima a Berlino, ci sono Ava DuVernay, Eva Longoria, la Cartier Foundation di Parigi e il MoMA di New York, due istituzioni che espongono sue opere. 

Cristiana Paternò
13 Febbraio 2019

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