Synonymes: l’addio al linguaggio di un giovane israeliano

In concorso a Berlino il film autobiografico di Nadav Lapid


BERLINO – Yoav è un ragazzo israeliano fuggito in Francia per dimenticare il suo passato. Il che significa anche dimenticare la propria identità, e decide di farlo a partire dal linguaggio. Promette a sé stesso di non pronunciare più una singola parola in ebraico, quindi il dizionario diventa il suo fedele compagno alla ricerca di sinonimi che gli permettano di farsi capire anche se è solo, senza documenti e senza praticamente niente addosso, dato che lo derubano di ogni suoi avere proprio mentre sta facendo la doccia. Fa amicizia con una coppia, che ha strani progetti per la sua integrazione. Alla ricerca di un lavoro, si trova presto nell’atelier di un sedicente artista che somiglia più a un maniaco sessuale. E’ un percorso di morte e rinascita, tendenzialmente ispirato alla vita reale del regista Nadav Lapid, presente al festival per presentare, in concorso, il suo film Synonymes , Dedicato a sua madre, montatrice, scomparsa durante la lavorazione.

“Sono vent’anni che penso a questo film – dice l’autore in conferenza – dopo aver terminato il mio servizio militare, durato ben tre anni e mezzo, di ritorno a Tel Aviv, ho iniziato a studiare filosofia all’Università, a leggere i giornali, e ho capito che dovevo assolutamente lasciare Israele e non farvi più ritorno, per salvarmi. Sono arrivato all’aeroporto di Charles De Gaulle senza alcun programma per il futuro, senza documenti, armato solo del desiderio di scappare e diventare completamente francese. Dovevo staccarmi dal passato e rinunciare alla mia identità, e rinunciare al linguaggio è stata la parte più difficile. E’ tutto basato su cose che mi sono realmente accadute ma non si trattava tanto di mettere in scena la mia vita, ma di usarla per un racconto più universale. Né volevo fare un film politico, è un film misto, con danze, musica e corpi in movimento. Ci sono anche momenti giocosi. Si tratta di un’opera di distanziamento da una cultura che puoi amare soltanto in maniera rigida, senza porsi domande, uniformandosi alle politiche del momento. Naturalmente ci sono molte critiche a questo modo di pensare ma vorrei che in Israele la gente lo guardasse cogliendone tutti i livelli e le sfumature. Proprio per via di queste imposizioni estreme il distacco crea nel personaggio rabbia e violenza.

Il film parla soprattutto di identità e di come siamo prigionieri della nostra stessa identità, di come possiamo comportarci di fronte a questa cosa. Yoav mugula in continuazione tra le strade di Parigi. E’ una scena che si vede spesso. Le parole passano prima per la sua testa e poi per la sua bocca.

Gli ho dato un cappotto giallo, estremamente visibile. Come un’uniforme o, per quanto possa sembrare strano, il costume di Superman. Volevo che anche in mezzo alla folla, sugli Champs Elisèes, potesse sempre spiccare. Mi serviva un attore a cui potevo affidare me stesso, in tutti i sensi. L’ho trovato in Tom Mercier di cui mi ha colpito il raro mix tra precisione e attenzione al dettaglio e totale libertà. Ci siamo incontrati in un caffè e beveva con la mano sinistra. Gli ho chiesto: “Sei mancino?”. E lui: “no, ma nella sceneggiatura c’è scritto che Yoav è mancino”.

Andrea Guglielmino
13 Febbraio 2019

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