Melodramma e storia nel cinese ‘So long, my son’

So long, my son (Di jiu tian chang) di Wang Xiaoshuai racconta in tre ore intense trent'anni di saga familiare e di storia della Cina tra gli anni '80 e i '90


BERLINO – Youyun e sua moglie Liyun aspettano amaramente di diventare vecchi. La loro vita non è andata come doveva. Erano un tempo felici ma le cose sono cambiate dopo il terribile incidente che ha ucciso loro figlio. Provano a cambiare zona, spostandosi in città, ma il risultato è solo quello di isolarsi maggiormente. Nessuno li conosce e a fatica la gente capisce il loro dialetto. Adottano un figlio, ma questo non gli da alcun conforto. Lui lo sente e, di rimando, li abbandona. Vivono costantemente nel ricordo finché non decidono di tornare all’origine. Melodramma e storia nel film cinese So long, my son (Di jiu tian chang) di Wang Xiaoshuai.

Tre ore di saga familiare in cui si intersecano le vicende di vari personaggi che vivono, in modo diverso, il rapporto con la rivoluzionaria riforma economica della Cina degli Anni Ottanta. Si mescolano il piano politico e quello privato, mentre gli individui finiscono catturati nelle maglie di una società in continuo cambiamento. Un tableaux elegante in cui non mancano elementi di critica sociale, riferimenti al cambiamento culturale e alla crescita rapida del capitalismo nel paese, senza poter evitare drammi e ferite.

Nella conferenza, lunga e impegnativa quasi quanto il film, il regista ha modo di spiegare le sue istanze al pubblico della Berlinale: “Dopo la rivoluzione culturale – dice – la tendenza è stata per molti quella di non pensare più al passato ma di dimenticare tutto e andare avanti sotto tutti gli aspetti, da quello economico a quello ideologico. Ma non si può fare a meno delle lezioni del passato se vogliamo raggiungere determinati obiettivi. E’ l’unica cosa che ci permette di non ripetere certi errori. Il film è molto lungo e impegnativo, mi ha aiutato molto il lavoro degli sceneggiatori e abbiamo deciso di non usare troppi effetti di montaggio per raccontare lo scorrere del tempo, anche se è chiaro che non puoi raccontare 30 anni filati in tre ore. Volevo però che il pubblico avesse la sensazione del cambiamento, della distanza tra presente e passato, spero che questo arrivi con le scelte che ho fatto. Come artista mi interessa soprattutto la flessibilità che le persone hanno acquisito e il loro relazionarsi ai sentimenti e all’amore. Sono tutti diventati più ottimisti. In generale mi sento ancora a disagio quando la gente piange, vorrei fuggire dalla stanza quando capita. Non voglio stare qui a dirvi di non piangere durante il film, ma quello che volevo fare era mostrare persone ottimiste, che continuano a sorridere ed essere gentili, che provano a farcela nonostante il dolore delle proprie vite. Le generazioni precedenti alla mia hanno cercato il benessere, non per tutti è stato facile, qualcuno c’è riuscito pur passando attraverso la tragedia, ed era questo il tipo di storia che desideravo raccontare. In un paese come la Cina si finisce inevitabilmente per essere influenzati dalla politica, l’individualità è un elemento poco presente. Se chiedi a qualcuno le ragioni di quello che sta accadendo difficilmente ti saprà rispondere, per loro le cose accadono e basta. Come regista non me lo posso permettere e devo scavare un po’ più a fondo. Ora, per i giovani che vivono nella nuova era, c’è la possibilità di sapere più facilmente cosa vogliono e prendersi la responsabilità dalle proprie azioni, che a volte sono irreversibili”.

Esce naturale una domanda sul film del collega Zhang Yimou, One second, ritirato all’ultimo momento dal festival per non meglio specificati “motivi tecnici”, anche se secondo molti dietro all’evento c’è l’ombra della censura cinese: “Non ho visto il film – dice il regista – ma sono dalla parte di Zhang Yimou che è un regista che amo e che mi ha influenzato. So quanto sia importante per un artista portare la sua opera alla Berlinale e sono molto dispiaciuto che non abbia potuto essere qui”.

Andrea Guglielmino
14 Febbraio 2019

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