Andò, cinema e politica nel segno di Fellini e Rosi

Il regista, sceneggiatore e scrittore protagonista di una masterclass al Bif&st, ha parlato del suo rapporto con i maestri e della dimensione politica del suo cinema


BARI – “Viviamo in un tempo in cui vengono annunciate false rivoluzioni e false promesse, c’è un aspetto illusionistico della politica di oggi che non vuole altro che mantenere il potere per il potere”.

“Il potere di oggi è impotente ma predica per attivare qualcosa che non è in grado di praticare”.

“Vecchio e nuovo potere alla fine si confondono”.

“La politica è condannata alla finzione, è più o meno quello che sta accadendo oggi”.

“Il potere ha delegato all’economia ogni decisione perché non è in grado di prenderne”.

Politica e potere sono state al centro di molte delle riflessioni che ha offerto il regista, scrittore e sceneggiatore Roberto Andò nella sua masterclass al Teatro Petruzzelli di Bari dopo la proiezione del suo film più recente, Una storia senza nome, fuori concorso alla Mostra di Venezia.

“Noi viviamo un tempo di false rivoluzioni, di annunci di rivoluzioni a cui non segue una rivoluzione, ma semmai una restaurazione. Stare lì a distinguere e ricollocare le cose coi nomi giusti è importante, è il nostro ruolo”. Nella lunga e appassionata lezione condotta da Enrico Magrelli si parla soprattutto di politica. Della “politica come riflesso dell’impotenza oggi dominante” e della necessità che il cinema lo racconti. “Uno dei grandi temi di qualunque luogo social, di qualunque schieramento o movimento politico – dice Andò – è una rivendicazione rivoluzionaria, che molto spesso però, quando avviene, è una falsa promessa”. “Interessante per un narratore – spiega l’autore di film come Viva la libertà e Le confessioni – è soffermarsi sull’aspetto di un potere impotente ma che predica continuamente per attivare qualcosa che non è in grado di attivare. Dietro tutto questo, però, ci sono persone che soffrono davvero e che hanno bisogni reali. L’aspetto illusorio e illusionistico della politica di oggi fa sì che questo dolore venga cinicamente messo da parte per fare altro. Oggi – dice Andò – c’è il problema di mantenere il potere per il potere”.

E ancora: “Il crimine in generale è lusingato dal cinema, anche quando ne dà una rappresentazione efferata”, prosegue il regista, la cui ultima fatica è stata una versione de La tempesta di Shakespeare con Renato Carpentieri nel ruolo di Prospero. “La mafia uccide giornalisti e giudici, cineasti non ne ha mai fatti fuori”, ricorda. Ritenendo che “tutto quello che è avvenuto in Italia attorno a certe fiction non ha fatto altro che fare piacere al crimine, perché si rispecchia in un racconto che diventa quasi attraente, seduttivo”. Eppure, contemporaneamente, certi misteri italiani solo il cinema è riuscito davvero a raccontarli, come ha fatto Rosi con Salvatore Giuliano.

Andò ha parlato ancora del suo “rapporto inquieto con la fede” e della fascinazione per i “giochi di identità, la scelta degli pseudonimi come iperbole del non detto”, in una concezione del “cinema come ponte tra la realtà e l’immaginazione” dove l’impostura ha largo spazio. Nella sua tripla veste di regista di cinema, di teatro e scrittore, Andò ha rivelato di “lasciarsi andare ad una schizofrenia profonda. Mi piace vivere il privilegio di questa schizofrenia, poter passare dall’uno all’altro. La letteratura – ha concluso – spesso ha fornito al cinema anche grandi occasioni. Importante è sempre schivare al cinema la letterarietà, che è un’altra cosa, pericolosissima”.

E della sua versione de La tempesta scespiriana ha detto: “Con Carpentieri abbiamo asciugato il personaggio di Prospero, lo abbiamo reso contemporaneo. Quella di Shakespeare, d’altronde, è una di quelle grandi opere che servono per capire una crisi, per capire un mondo che va in rovina, per capire il complotto del potere”.

Andò ha parlato a lungo dei suoi maestri, soprattutto Federico Fellini e Francesco Rosi. “Quello con Fellini sicuramente è uno degli incontri più notevoli che io abbia mai avuto nella mia vita. Lo conobbi all’età di 23 anni facendogli da assistente sul set di E la nave va. Quel tipo di cinema oggi non si potrebbe fare, e quindi è anche il ricordo di una antropologia perduta. Avere frequentato un set di quel tipo mi ha dato una visione che credo faccia parte di me”.

“Per la mia generazione sono stato controcorrente, ho iniziato a lavorare sui set in un periodo in cui tutti prendevano subito in mano la macchina da presa e giravano i loro film. Io invece ho fatto un vero e proprio apprendistato durante il quale ho potuto osservare da vicino e addirittura collaborare con grandi artisti dai quali ho imparato il senso della libertà”.

“Fellini era il più misterioso, non abbiamo veramente legato ma non ho mai visto nessuno lavorare come lui, aveva un modo di organizzare le riprese assolutamente unico, riusciva a creare una geometria perfetta in mezzo al caos assoluto. Sul set di E la nave va mi volle sempre vicino alla coreografa Pina Bausch, che aveva scelto come attrice ma che temeva avrebbe abbandonato le riprese dopo avere visto il suo particolare approccio alla regia. Per una scena le chiese di cantare semplicemente una ninnananna anziché recitare le battute previste, tanto poi le avrebbe cambiate al montaggio”.

“Con Francesco Rosi, per il quale ho lavorato in Cristo si è fermato ad Eboli si creò invece una grande amicizia, ci sentivamo al telefono anche tre volte al giorno. Era un grande professionista che seppe esprimere una drammaturgia civile. Ora sto lavorando con sua figlia Carolina e sono emozionato perché mi sembra di lavorare con una sorella”.

Francis Ford Coppola mi colpì per la convinzione e il dubbio con il quale girava un film, Il Padrino Parte III che era una battaglia della quale non era del tutto persuaso. Era un regista disincantato, uno che ne aveva viste veramente tante. Ma anche molto audace: per una scena sulla scalinata del Teatro Massimo di Palermo, che lui immaginava come una scena d’opera, voleva che dietro la macchina da presa ci fosse Peter Brook ma poi dovette accontentarsi di un regista di routine”.

A proposito di Michael Cimino, con il quale ha collaborato per Il siciliano: “Con lui ho molto legato, siamo stati insieme in Sicilia per ben sei mesi, era sempre alla ricerca di location particolari perché il paesaggio era il vero protagonista dei suoi film, come per John Ford. L’ho visto per l’ultima volta a Roma, durante una cena, era già trasfigurato dai vari interventi di chirurgia estetica. ‘Tu pensi che io stia diventando donna?’ mi chiese. In realtà pensai che fosse un uomo che stava male, che aveva subìto la fine di quel cinema che lui aveva così bene incarnato e che non si faceva più, non ha retto il fatto di non potere più girare”.

Nel corso dell’incontro c’è stato anche il tempo di ricordare affettuosamente Bruno Ganz, recentemente scomparso, che recitò per Andò nel primo lungometraggio del regista, Diario senza date. “Sono poi tornato a lavorare con lui per Il caso Kafka con Moni Ovadia affidandogli la voce dello scrittore. E lui volle registrarla recitando a memoria, senza leggere il testo. Mi colpì profondamente”.

 “Ma se c’è una persona che ha davvero contato nella mia vita – ha detto – è Leonardo Sciascia. Un uomo limpido, che ha dato molto all’Italia, e che mi ha accolto con una mitezza e un’umiltà che nei grandi che poi ho conosciuto non ho mai più ritrovato”

Cristiana Paternò
02 Maggio 2019

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