A cosa serve il cinema?

A questa domanda per certi versi paradossale ha cercato di rispondere - in via del tutto provvisoria - la 55esima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema con la consueta tavola rotonda di Satellite


PESARO – A che cosa serve il cinema? A questa domanda da far tremare le vene ai polsi ha cercato di rispondere – in via del tutto provvisoria – la 55esima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema con la consueta tavola rotonda di Satellite, sezione non competitiva riservata ai lavori sperimentali e d’avanguardia curata da Anthony Ettorre, Annamaria Licciardello, Mauro Santini e Gianmarco Torri. Proprio Torri ha introdotto il dibattito con gli autori di questa quarta edizione, richiamando un testo di Luciano Bianciardi (da Il lavoro culturale, 1957) “che descrive con amore ed ironia il linguaggio degli operatori culturali legati al cinema”.

“Uno dei primi nomi di Satellite era Ai margini, ma l’abbiamo cambiato perché vogliamo modificare i rapporti di forza”, ha aggiunto Gianmarco Torri. Del resto la sezione si pone come “tentativo di aprire le porte e far entrare chiunque voglia vivere il cinema, condividerlo, non solo produrlo professionalmente”. Mentre Mauro Santini parla di “una sezione di cinema terapeutico”. Ma Adriano Aprà prende spunto da Satellite per sferrare l’ennesimo attacco al cinema industriale ribaltando la vicenda di Davide e del gigante Golia. “Alle spalle – dice rivolgendosi con veemenza agli autori della sezione – avete il cinema di genere e i 200 orrendi film italiani con destinazione sala cinematografica che concorrono al David. Voi date voce alla società circolare, mentre coloro che si schierano dalla parte dell’industria danno voce alla società verticale che fa propaganda della distruzione. L’industria è in profonda crisi e proprio per questo batte i tamburi e moltiplica i premi per farsi sentire. Sorrentino, Guadagnino, Garrone e Gianfranco Rosi – non per colpa loro, ma per colpa dei media – hanno fatto il vuoto attorno agli altri”.

Quindi la carrellata di interventi, in ordine sparso e con qualche imbarazzo a prendere posizione. Sembra impossibile, e forse inutile, individuare un sentire comune, un’estetica condivisa o una presa di posizione politica, e allora meglio seguire l’esortazione all’ascolto di Bruno Torri: “Il cinema ha molti aspetti, il mondo è più complicato di quello che fa comodo a noi”.

Emanuele Marini (Solo gli occhi piangono, 17′): “Il cinema serve a vederlo. Va mostrato anche al di fuori della Mostra di Pesaro, portato in giro per l’Italia. Per me è un atto di messa a nudo, di me e di chi guarda, da attuare con delicatezza e responsabilità. Ma se non ci fossero i soldi pubblici, staremmo tutti a spalare la rena, come si dice dalle mie parti. Ci appoggiamo in maniera anche pigra ai finanziamenti, mentre ci si dovrebbe unire e basarsi anche sull’iniziativa individuale. Internet è gratuito e bisogna usarlo per far sì che il cinema sia visto. Se c’è interesse arrivano anche i soldi”. Marini sta ultimando un documentario finanziato dalla Film Commission Torino Piemonte.

Erik Negro (Non c’è nessuna dark side, 215′) definisce il suo film, che segue tre ragazzi pronti a lasciare la provincia appena finito il liceo verso nuove prospettive come una video-cosa, dodici anni di lavoro e più di 400 ore filmate con qualsiasi camera e qualsiasi formato, “non potrei mai dire che sia il mio film, forse neanche che sia un film”. Morgan Menegazzo (Prima che l’ora cambi, 14′): “Non c’è nulla di utilitaristico, semmai di speculativo, nel cinema, ha a che fare con la sfera soggettiva, con il desiderio di guardar le stelle, percepire che c’è qualcosa di più ampio. E’ però importante chiedersi a cosa serva a livello collettivo, comunitario, per coagulare un’idea non tanto di realtà ma del possibile. Le immagini in questo tempo più che mai sono politiche perché vengono veicolate sempre più come merce, come prodotto. Esiste un’atmosfera che basta a se stessa. Ognuno pensa di autoprodurre e veicolare il film su internet”. Maria Chiara Pernisa, coautrice con lui: “Meno il cinema è narrativo, più lo spettatore può avere un ruolo attivo nella creazione della realtà. Come gli uomini dipingevano scene di caccia perché si realizzassero, l’immagine ha questo potere di far accadere le cose. Siamo circondati da immagini merce, a volte l’assenza dell’immagine o di un pensiero forte è senz’altro un atto politico”.

Edoardo Genzolini (Eraserhead Rimozione sicura, 12′): “Per me il cinema serve, e lo dico con le parole di Julio Bressane, a fermare ciò che è destinato a scomparire quando ci si confronta con un senso di limite e impermanenza. Sancire un controllo su ciò che per natura non può essere controllato. Rendere riproducibile qualcosa che è destinato a non permanere, e nel caso del found footage è ancor più vero”. Genzolini nella sua opera lavora su storie di Instagram e sul concetto dei 15 minuti di celebrità che diventano 15 secondi. Giorgiomaria Cornelio forma con Maurizio Marras il progetto di ricerca La Camera Ardente. Parla di “forte sudditanza del cinema ai suoi codici, una sudditanza da rompere con un taglio, una crepa, una piccola fessura. Non per vedere di più, ma per veder di meno. Il cinema è sempre stato una consolazione arrogante e fallimentare, fatta da persone molto arroganti”. Donato Sica noto come Bogdan (Fantasmata, 3′) ricorda come il cinema sia, sulla scorta di Majakovskij, un’idea del mondo. “La mia educazione è stata la tv, i cartoni animati. Ho passato più tempo con Lupin III che con i miei genitori. Attraverso le immagini sono entrato in contatto con la sessualità e la politica. Pesaro è uno dei posti fondamentali per avviare una riflessione sul cinema, mentre la Mostra di Venezia ha una proposta già codificata”. E ancora: “Il cineasta brasiliano Rogério Sganzerla definiva il suo gruppo cinema marginal, perché si trovava al punto di margine tra il mainstream e il cinema novo. Non ci sentiamo rappresentati da Sorrentino e di Garrone, dai film italiani che vanno ai festival”.

Giuseppe Spina (Variazioni luminose nei cieli della città, 5′): “Il cinema non serve assolutamente a niente. Sono cresciuto nel deserto siculo. Nel 2005 ho realizzato un corto, che non venne selezionato in Italia, ma andò a Rotterdam. Lì mi sono reso contro che il problema non era il mio cinema ma il luogo dove vivevo”.

Cristiana Paternò
18 Giugno 2019

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