Peter Greenaway: “Il nuovo tabù è la morte”

"Ho scelto Morgan Freeman come protagonista, amo soprattutto la sua saggezza, è un uomo che sa stare al mondo, oltre ad essere un attore con una voce così profonda"


TAORMINA – “Dopo l’erotismo, ora ho voglia di esplorare la morte al cinema. Gireremo a Lucca con Morgan Freeman, la domanda principale del mio nuovo film, Lucca mortis, sarà: ‘È possibile per noi avere una morte felice?'”. Lancia questo interrogativo con il solito tono provocatorio e colmo di graffiante umorismo, il cineasta e artista Peter Greenaway nella sua masterclass al Taormina Film Festival. “La morte è la nuova frontiera pornografica – aggiunge – Dovremmo parlarne di più, sensibilizzare, riconoscere che il tema è ancora un tabù, mentre c’è gente religiosa che malgrado il progresso scientifico e tutto quello che oggi sappiamo crede ancora ci sia qualcosa al di là della morte”.

Fiero del suo ateismo (“È il fantasma della chiesa cattolica che ha ancora controllo sull’Italia”), tra una digressione politica (“Dobbiamo sempre stare dalla parte della democrazia”) e una personale (“L’esplorazione dello spazio è un disastro, come tutte le conquiste che abbiamo fatto nei millenni”), racconta la trama del suo prossimo lavoro cinematografico.

“Uno scrittore americano torna in Italia perché scopre una storia familiare che riguarda sua nonna, innamorata di un americano durante la guerra. Vuole capire se l’eroismo di cui è circondato questo personaggio sia vero oppure no”. E sulla scelta dell’attore protagonista: “Ho scelto Morgan Freeman come protagonista, amo soprattutto la sua saggezza, è un uomo che sa stare al mondo, oltre ad essere un attore con una voce così profonda e particolare, marrone come la sua pelle”.

Non è mai riuscito a distinguere il linguaggio visivo da quello cinematografico: “Cominciai come pittore, ero sempre deluso che i paesaggi non avessero colonna sonora. Per me il cinema è diventato un modo di dipingere audiovisivo e tecnologico. Oggi vorrei cercare nuovi modi di fare cinema, l’arte è tale solo se riesce a reinventarsi”.

Ricorda al pubblico i suoi inizi artistici: “Ero molto ansioso rispetto ai cambiamenti, pensavo sempre alla natura effimera delle cose, al continuo incessante cambiamento, così ho iniziato a dipingere paesaggi per fissarli. Con questa filosofia sono arrivato al cinema. Nei miei primi film non muovevo mai la cinepresa, cercavo costantemente di ricreare la pittura e rievocare l’immaginazione dei pittori”.

I suoi riferimenti cinematografici? “Tra tutti i miei registi preferiti, direi Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, il più grande mai esistito. I registi sono gli artisti affascinati dalla luce artificiale, quindi per me i primi sono stati Caravaggio, Rembrandt, Velazquez e Rubens. Ovviamente amo Fellini, era grande… ma mai come Ėjzenštejn”.

Ha poca stima dei registi di oggi, specie quelli hollywoodiani (“Scorsese? Non è perfetto, e Spielberg no, è troppo volgare per me”), lamenta che ci siano ancora troppi tabù nel cinema come nel dibattito civile (“Omosessualità, aborto e eutanasia sono le parole proibite di oggi”), lancia la provocazione del “cinema non narrativo multiscreen”. Ovvero “verticale”, dato che tutti oggi fanno video tenendo il cellulare in verticale, e “visuale” lamentando che il cinema come lo conosciamo è “noioso perché troppo basato sul testo”.

Quindi parla del suo lavoro con gli attori: “Il mio lavoro non è tanto dirigerli, finché leggono la sceneggiatura si spera facciano un buon lavoro. Gli attori di teatro sono quelli che preferisco in assoluto, già abituati a fare un lavoro come quello che richiedo io, con scene lunghe anche 10 minuti senza interruzioni né montaggi serrati, cosa che detesto. L’unico sceneggiatore con cui amo lavorare resta sempre Shakespeare, per questo da inglese tendo a scegliere attori che sanno bene come si sta sul palcoscenico, e quindi in scena”.  

Claudia Catalli
03 Luglio 2019

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