Alla Mostra si dicono le parolacce

La rivista 8 ½ tratta il tema delle parolacce nel cinema: incontro con Gianni Canova e Vito Tartamella


L’occasione è presentare l’ultimo numero di 8 ½, e “il tema che subito ha suscitato nel cinema reazioni di grande interesse”, così esordisce Gianni Canova, direttore editoriale della rivista, per introdurre l’argomento scelto per il numero appena pubblicato, affiancato da Vito Tartamella, studioso della materia e autore del sito www.parolacce.org. 

“Le parolacce sono parole magiche”, dice l’esperto. “Le abbiamo a disposizione e in questo periodo storico le stiamo biecamente abusando: le parolacce parlano delle pulsioni dell’uomo, sono spugne emotive, perché hanno assorbito sensazioni interiori che vengono a galla nel momento stesso in cui vengono dette. Così succede nella nostra lingua, ma un pò in tutte, anche nel giapponese che sarebbe quasi del tutto priva nel lessico. Ed è così inevitabile che la Settima Arte le abbia inglobate”. Infatti, “I grandi autori le parolacce non le usano: mai falsità è stata più grande!” intercala Canova, cucendo un leggiadro e interessante tessuto di riflessioni tra lui e lo studioso.“Sì, subito mi sono venuti in mente I Vitelloni di Fellini e la parolaccia mimata da Sordi con il gesto dell’ombrello”, ribatte Tartamella, che continua: “Le ha usate quindi l’autore de La dolce vita, ma anche De Sica in Sciuscià (Fijo de…), precursore nel ‘47; addirittura Luchino Visconti in Gruppo di famiglia in un interno”. “Una sinfonia di turpiloqui, insomma: Tarantino conta 283 ‘fuck’ in Pulp Fiction”, ricorda il direttore. “Battuto da Scorsese in Wolf of Wall Street con 687, ovvero 3 al minuto” rilancia Tartamella, per cui “hanno un senso se hanno un fine funzionale nella narrazione, quindi nel cinema introducono un elemento di realismo della vita quotidiana, e non solo nei ‘bassifondi’ di Pasolini, perché spesso determinano anche contrasto e violenza, ripenso per esempio a Travolti da un insolito destino…”, che “45 anni fa usciva vietato ai minori di 14 anni proprio per ‘turpiloquio persistente”, ricorda Canova. “La parolaccia ha dipinto tantissimi contrasti forti facendo scoccare scintille, come nel caso tra Giannini e Melato, due antipodi e quindi due micce per far scintille. Se guardiamo anche Zalone, o Sordi, la parolaccia porta una liberazione dal tabù, oltre che schiettezza”.

Sfogliando le pagine dell’ultimo numero di 8 ½ proprio mentre si dibatte, Gianni Canova riferisce di un suo articolo per cui: “Per un inquadramento colto del tema, nella rivista nomino Italo Calvino, che sostiene l’insostituibile valore e l’icasticità espressiva delle parolacce”, e poi il direttore aggiunge un episodio registrato nella costruzione del numero stesso del giornale, ovvero come: “In ambito accademico il tema è guardato con snobismo. Colleghi docenti a cui ho proposto di scriverne, dopo prime importanti ritrosie, hanno ammesso che le parolacce meriterebbero addirittura una ricerca accademica approfondita”.  E la cosa viene confermata da Tartamella, lui stesso autore di un libro e di un sito sul tema, www.parolacce.org: “Noi viviamo in un’epoca di inflazione della parolaccia, fa parte di corsi e ricorsi della Storia, questa è un’epoca molto sbracata. Peccato, perché si rischia di depotenziare un patrimonio. Dante addirittura nell’Inferno ne fece uso: ‘…vidi un col capo sì di merda lordo’, per descrivere le bassezze dell’animo umano. Un’accusa di inflazione del turpiloquio la dobbiamo un po’ anche ai politici, con l’irruzione di Umberto Bossi negli anni ’90, fu una grande operazione di marketing per dire alla gente: ‘sono come voi, parlo come voi’”.  Eppure, precisa Canova: “Non è prerogativa del volgo la parolaccia, non è vero. Leviamo questa idea, anche se in Martin Eden, in Concorso qui alla Mostra, si dice la parola ‘merda’ e gli viene sanzionato il fatto che lui venga dai bassifondi, mentre lei sia una borghese francese, quindi usare la parolaccia sembra ancora dissonante socialmente”.

Ma nel cinema, “tra i più capaci nell’usare la parolaccia, c’è Carlo Verdone“, concordano i due, con Tartamella che ricorda: “Manuale d’amore, quando lui si lascia con la fidanzata ma se ne pente, e la chiama nel cuore della notte. Dopo una trentina di ‘Ti Amo’, dall’altra parte del telefono un ordinario signore in canotta risponde con ‘…chi cazzo sei… vaffa…’: il cambio di tonalità della scena è esilarante”.  

Racconta il direttore come “in alcuni casi, nei gruppi di sceneggiatura, una volta c’era un ‘parolacciaio’, che aveva il compito di recuperare il bouquet di parole più consone, come succedeva con il ‘battutista’, quale fu Scola all’inizio della sua carriera” e poi ci sono ancora esempi come quello di “Paolo Villaggio, che in questo senso ha introdotto delle invenzioni lessicali straordinarie”, chiosa Tartamella precisando come: “da ‘una cagata pazzesca’ a ‘una merdaccia’, sono modi di dire entrati nel patrimonio della nostra espressività”. 

n/b
04 Settembre 2019

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