Capolicchio: “Scrivo questo libro da 58 anni”

L’attore presenta D’amore non si muore, autobiografia tratta da diari personali ultracinquantennali


Era già in sala, ieri sera alla Casa del Cinema, Lino Capolicchio, 76 anni, per il desiderio di riguardarsi nel film Amore e Ginnastica (1973), che ha anticipato la presentazione del libro autobiografico D’amore non si muore: l’incontro, alla presenza di Pupi e Antonio Avati, moderato, per il Centro Sperimentale di Cinematografia, da Alberto Crespi e Domenico Monetti, che firma una delle prefazioni, insieme a quella del regista bolognese, fraterno amico dell’attore.

“Le cose da dire sarebbero infinite, ma voglio anzitutto citarmi, dalla prefazione”, premette con la sua consueta abilità di narratore Pupi Avati: “Ho scritto che ‘Lino è una delle persone di cinema che ride più frequentemente, e per cose che non fanno ridere…”, per dire che Capolicchio è una persona fuori sincrono, lui con la vita è stato così, non ha mai rispettato l’andazzo generale, anche in questa fase dell’età adulta, è andato a vivere a Fondi, per dire. Lino è fuori dal coro, e lo è rimasto perennemente: ero un regista con due fallimenti accertati a Bologna, da cui scappavo quindi a Roma, mentre lui aveva già fatto Il Conte di Montecristo, e maturato successi, e gli riconosco di aver fatto il primo film insieme in condizioni produttive estreme, con 12 persone totali, anche se però, alla luce del presente, è uscita un’opera che ancora oggi ci dà soddisfazione, La casa dalle finestre che ridono. Nessun attore con i suoi box office di quegli anni avrebbe mai accettato, aveva invece percepito le potenzialità e da quel film è nato un sodalizio: Lino è entrato nella nostra famiglia. Intendo quindi pubblicamente dichiarare qui riconoscenza a Lino, per la fiducia ad un fallito che scappava da Bologna”.

Di Lino Capolicchio si conoscono le interpretazioni – 33 solo quelle per il grande schermo, tra cui l’ultima proprio per Il signor Diavolo di Avati – e qualche aneddoto sulle sue manie culinarie, occasione, quella della convivialità di una cena, in cui nasce questa autobiografia, come spiega Domenico Monetti: “Parlando a quella tavola, mi ha confidato del suo diario quotidiano, da lì l’idea di ridurlo ad un’autobiografia, straordinaria per il periodo di cinema che ha vissuto, e per gli incontri, dalla Magnani ai Beatles. Ci sono frammenti quasi lirici, perché è l’artista che racconta un altro artista”, e questo accade da 58 anni, come ha raccontato lo stesso Lino Capolicchio: “Io scrivo un diario da quando ho 18 anni, da quando sono entrato all’Accademia di Arte Drammatica: anche stasera, prima di andare a letto, scriverò. Ho dei quadernoni della mia vita, ma sono molto pudico: un giorno mio figlio mi ha ‘ricattato’ dicendo che se fossi morto lui avrebbe pubblicato tutto a sue spese. E allora no! Ci sono cose che non voglio rendere pubbliche: rileggendo i diari ho ricordato di essere stato a letto con una delle più belle presentatrici degli anni ’60, e non lo ricordavo. Naturalmente non ho fatto l’attore perché mi dicevano che ero bello, che somigliavo a Paul Newman, ma volevo farlo perché mi rispettassero per la mia bravura, certo la bellezza aiuta in questo mestiere. Il nostro Paese è fatto di gente straordinaria ma ci occupiamo di attori comici che non fanno ridere solo perché passano in tv, perché se non passi di lì non sei nessuno: gente così, ai miei tempi, sarebbe stata presa a calci nel sedere. Come diceva il mio sodale Carmelo Bene: ‘io la denuncio per incapacità!’, un concetto bellissimo. Potrei parlare ad oltranza, ma sono timidissimo: spesso si fa l’attore per supplire a questa cosa, inoltre avevo un padre terrificante che mi ha massacrato l’infanzia, mi mandò in collegio perché mi reputava un bambino insopportabile, e naturalmente il nostro rapporto si è sfarinato, mi disse che non volle vedermi mai più, e così è stato anche il giorno che è morto. Nei registi ho sempre visto una figura paterna, così anche in Pupi, ma a cominciare da Strehler, di fronte a cui io avevo 21 anni, e che sospettava fossi omosessuale, un qualcosa che m’ha sempre accompagnato, forse per il mio viso delicato, ma che ho anche un po’ dovuto combattere: ci sono stati registi che mi corteggiavano, ricevetti anche una lettera d’amore da uno di loro, e non sapevo come districarmi da questo imbarazzo, seppur non invadente. Nella biografia racconto che ho anche manie culinarie, me le porto dietro da bambino. Ricordo una volta in cui volevo la polenta con lo spezzatino, e mia madre me la fece, ma il rosso del pomodoro era di un colore più scuro di quello che m’aspettassi e io finii a letto senza cena perché sostenevo non mi piacesse; poi ho la mania dell’acqua, non la voglio gelata: in America mettono il ghiaccio dappertutto, io glielo tiravo in testa! Chiedevo di scaldarla a bagno Maria. E poi c’è anche la delusione più grande della mia carriera, con Fellini, che mi convoca in ufficio mentre prepara il Satyricon: vidi una mia foto sulla bacheca, così credevo stesse pensando a me, e lui ammise che fossi giusto, e il produttore Grimaldi voleva due nomi ‘di cartello’, tra cui me. Ma Fellini fu anche molto onesto e aggiunse che voleva due sconosciuti, e vinse lui sul produttore: la cosa che più mi fece rabbia fu poi vedere l’attore scelto, era identico a me!”. 

D’amore non si muore di Lino Capolicchio, edito da Bianco e Nero-CSC e Rubettino Editore, sono 250 pagine di scritto personale, tra racconto intimo e cinematografico, dove la narrazione si accompagna molto anche alle immagini, in cui ricorre il raffinato viso dell’attore, come nella copertina, dal film che parafrasa proprio il titolo del libro, D’amore si muore (1972) di Carlo Carunchio, con fotografia di Angelo Frontoni: tutte le immagini che illustrano sono delle collezioni della Cineteca Nazionale e dell’archivio personale di Capolicchio stesso.

Nicole Bianchi
14 Gennaio 2020

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