Cinque pezzi (non) facili sul nostro presente

È Micol Roubini, artista milanese, la vincitrice del Premio Salani 2020, assegnato al 31° Trieste Film Festival dalla giuria composta da Giovanni Cioni, Daniela Persico e Alessandro Stellino


TRIESTE – È Micol Roubini, artista milanese classe 1982, la vincitrice del Premio Salani 2020, assegnato al 31° Trieste Film Festival dalla giuria composta da Giovanni Cioni, Daniela Persico e Alessandro Stellino. Il suo primo documentario, La strada per le montagne, è “un viaggio alla ricerca di un luogo perduto della storia familiare che si rivela come il castello di Kafka – si legge nella motivazione -.La regista si spinge sempre più in profondità di una selva di storie intime e personaggi picareschi con l’implacabile determinazione di chi non abbandona la posizione. L’unico atto ancora possibile di fronte all’oblio contemporaneo”. Un racconto poetico e personale che si muove alla ricerca delle origini dell’autrice, in quel lontano passato nel quale risiede la fuga del nonno materno dal suo villaggio natale nell’Est dei Carpazi verso la Russia, unico sopravvissuto della famiglia. Nei ricordi offuscati dal tempo, un solo punto fermo: Jamna, questo il nome del paese, e la casa che suo padre aveva costruito. A testimoniarne l’esistenza una foto, scattata alcuni mesi dopo la costruzione e riemersa dalla polvere solo dopo la sua morte. Nel 2014 l’autrice si mette sulle sue tracce e visita Jamna per la prima volta in cerca dell’edificio di famiglia di cui non sembra più esservi traccia, dimenticato o rimosso da tutti. “Ho deciso di investigare questa sorta di amnesia collettiva – spiega – non come una semplice speculazione riguardante il passato, ma attraverso le implicazioni di un evento personale. Il film si pone come una domanda aperta sul presente di quei luoghi”..

Roubini non è l’unica a porsi il problema, anche altri film all’interno della eterogenea selezione di quest’anno si interrogano sul presente (non proprio roseo), sia da un punto di vista intimo che collettivo, corale. Come in #387, il documentario di Madeleine Leroyer che prende il titolo dal numero assegnato a uno dei mille migranti annegati il 18 aprile 2015 al largo della costa libica, durante il naufragio della nave fantasma che li trasportava in Europa con il sogno di una vita migliore. Un documento sincero e commosso che, attraverso le esperienze dirette di chi lavora all’identificazione dei cadaveri e dei dispersi nel tentativo estremo di ridare dignità alla morte, restituisce la portata di questa immensa tragedia, quella con il più alto numero di vittime nel Mediterraneo dalla seconda guerra mondiale a oggi.

Anche in La bufera. Cronache di ordinaria corruzione, documentario che mutua i codici del “legal thriller” e di tanto cinema di impegno civile americano, i protagonisti sono eroi della porta accanto. Sette whistleblower, persone comuni che pur di non venire meno ai loro principi di integrità, non hanno esitato a denunciare episodi di corruzione presso le aziende o le pubbliche amministrazioni in cui erano (o sono tuttora) impiegati. Le ha incontrate il regista Marco Ferrari. Negli ultimi anni – racconta – ho avuto la possibilità di incontrare molti whistleblower italiani: ho conosciuto un ex-calciatore a cui era stato chiesto di truccare le partite; un giornalista che ha scoperto una frode finanziaria messa in atto dal proprio giornale; un’archeologa che ha svelato una serie di abusi edilizi in un’area protetta. Tutte queste persone hanno deciso di denunciare ciò che hanno scoperto. Ma la cosa che più mi ha scioccato è stato scoprire che le loro vicende, sebbene all’apparenza diverse, presentavano dei tratti comuni: raggiri, pressioni, intimidazioni, isolamento”.

Più intimo Maternal, il film di esordio di Maura del Pero, l’unica fiction tra i cinque titoli in gara, che tuttavia mantiene stretti legami con la realtà. Presentato in anteprima al Festival di Locarno 2019, il film è ambientato in una casa famiglia religiosa a Buenos Aires dove si accolgono ragazze madri adolescenti. “Maternal – spiega l’autrice – è un film di finzione ispirato a esperienze cui ho realmente assistito durante i quattro anni in cui ho lavorato in Argentina in una situazione simile a quella che racconto. Vedere una sedicenne incinta impressiona. Un viso di bambina che allatta porta con sé una contraddizione commovente. Ciononostante, è stata la visione epifanica di una giovane suora che cullava uno dei loro figli che ha messo in moto il film: in quel momento ho realizzato tutta la potenza del cortocircuito emotivo di un mondo femminile chiuso, paradossale e affascinante in cui la maternità precoce delle ragazze convive con quella assente delle religiose”.

La maternità, a suo modo, ma accostata al desiderio e alle pulsioni è anche uno dei temi portanti di Padrone dove sei, opera (hard) rock abissale che Carlo Michele Schirinzi dedica alla madre nell’anno della sua scomparsa. “Un’opera umida” come lui stesso ama definire, di nebbie, di umori e di fluidi, un collage segreto e indecente in cui si riflettono una disperazione e una solitudine senza confini. Audace e sfrontato, materico al limite del feticismo, sessuale al limite dell’incesto e della blasfemia, Padrone dove sei è cinema dell’assenza e del vuoto, cinema della paura senza paura.

Beatrice Fiorentino
23 Gennaio 2020

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