Irradiés, il dolore dei sopravvissuti

Un viaggio nel dolore e nella distruzione, con una struttura non convenzionale in cui lo schermo appare diviso in tre parti, nell'unico documentario in Concorso a Berlino, Irradiés di Rithy Panh


BERLINO – Ha tante forme il male, la tragedia che si irradia nel mondo, ed esprimere a parole cosa voglia dire essere un sopravvissuto non è forse possibile. Occorre avvicinarsi il più possibile a quell’esperienza, prenderne contatto, viverla senza protezione, guardare in volto l’indicibile demone, affrontarlo, per provare, in qualche modo, a comprenderlo. È quello che accade in Irradiés, unico documentario in Concorso a Berlino realizzato dall’artista e regista cambogiano naturalizzato francese Rithy Panh, che porta sullo schermo un viaggio nel dolore, difficile, estremo, con una struttura non convenzionale in cui lo schermo appare diviso in tre parti, in un trittico di immagini a volte identiche, a volte collegate o che presentano al loro interno delle variazioni. Come una coreografia del dolore che detta il ritmo, che sottolinea l’accaduto. Perché ogni tragedia è unica, ma nella ripetizione delle immagini viene fuori il rumore sordo che chiede a gran voce di essere ascoltato. “Era importante che ci fosse una sorta di ripetizione perché molte volte le cose accadono troppo velocemente”, sottolinea il regista. “Oggi le immagini sono così veloci, ma voglio che il pubblico abbia il tempo di guardarle, essere sicuro che siano viste da prospettive differenti. Lo sviluppo degli eventi è cosi veloce che a volte perdiamo la verità”. 

Così sullo schermo scorrono e si ripetono immagini di implacabile brutalità: i bombardamenti durante la guerra del Vietnam, il disastro atomico di Hiroshima, il genocidio cambogiano. “Non un catalogo di quello che è successo, ma una selezione di immagini che avevano un senso dentro di me”, aggiunge. Violenze estreme ed assolute di fronte alle quali non esiste protezione, che frammentano l’anima nel profondo, come le immagini frammentate che appaiono sullo schermo, un monito sulla follia distruttiva che è accaduta, ma che potrebbe ancora ripetersi. “Mai come nel mondo di oggi ci sono così tante bombe e tanti attacchi, credo possa essere utile ricordare queste cose. Il film chiede l’attenzione del pubblico ma è anche pieno di speranza, non avrei fatto questo tipo di film se fossi pessimista sul futuro dell’uomo. Il cinema ha anche il ruolo di dirci che abbiamo la responsabilità di lottare contro totalitarismi. È un film sul dolore e la tristezza, ma anche sulla gioia del resistere. Io sono un sopravvissuto, ed è qualcosa che puoi esprimere nella vita di tutti i giorni”, rimarca Rithy Panh, nato in Cambogia negli Anni ’60 e fuggito a Parigi dalla dittatura dei Khmer Rossi e che in passato aveva dichiarato  che sopravvivere al genocidio fa sentire come “gli avanzi di cibo a una festa macabra di assassini, uno spreco, un errore nel sistema che ha eluso la vigilanza, come quei buoi marchiati per il macello, che a volte riuscivano a sfuggire al mattatoio di La Villette e correvano selvaggi, disperati, per le strade di Parigi”.

Rispetto alla scelta del linguaggio visivo, molto vicino alla videoarte: “All’inizio avevo pensato di fare un film classico, ma poi ho capito di aver bisogno di un altro approccio, del potere profondo di queste immagini. Non sono spaventato dall’innestare elementi più propriamente artistici nel cinema. Preferisco fare qualcosa nel modo migliore possibile, a volte anche sperimentando. È importante avere questa libertà nel fare cinema”.  Riguardo, invece, l’incredibile quantità di materiale d’archivio presente, in vario modo, nel film: “Per capire meglio ho guardato molto materiale e molti film. Ho iniziato a scrivere, a leggere poesie e letteratura, a guardare fotografie. Ho chiuso, poi, gli occhi e integrato tutte quelle immagini nella mia mente, per memorizzarne i dettagli e inserirle nella narrazione, incorporando tutti gli elementi come in un unico blocco. Le immagini di Archivio hanno uno straordinario potere, ma sono state realizzate in una circostanza differente, e occorre inserirle in un contesto politico nuovo. In questo senso, con gli archivi a volte lavori come un archeologo, a volte come un architetto, a volte come editor che innesta un differente senso alle immagini”.

In Irradiés appare anche Bion, performer giapponese di Butoh, una forma di danza d’avanguardia contemporanea, nata in Giappone negli Anni ’50, dopo Hiroshima, che combina teatro, improvvisazione, arti performative tradizionali giapponesi e danza espressionista tedesca, per creare una forma d’arte universale che esprime l’essere umano nel suo profondo. “La danza Butoh è un modo di esprimere la propria anima – sottolinea il regista – penso che viviamo una nazione che non ha molta anima, abbiamo dimenticato che anche i popoli ne hanno una e abbiamo bisogno di resuscitarla. Per ricostruire la società e ricostruire la vita”. 

Carmen Diotaiuti
28 Febbraio 2020

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