Elio Germano e il “Segnale d’allarme”

Germano: “Non mi piace l’attore che si esaurisce nel proprio mestiere”


“Non sono onnivoro, perché amo molto anche la mia vita personale, non mi piace l’attore che si esaurisce nel proprio mestiere. L’enorme curiosità mi divora per tutto e la duttilità mi porta a essere preparato e disponibile, ma tutto questo viene un po’ fermato dalla voglia di fare altro, come scrivere o fare musica: la scelta è sempre egoistica, se trovo sincerità di racconto è per me la cosa più importante per scegliere il progetto, affinché non si stia nella scomodità di una scatoletta. A me, il mio lavoro piace, soffro molto quando viene calpestato dalla logica del profitto, per cui cerco luoghi in cui lavoro per piacere di poterlo fare”, ha detto Elio Germano, protagonista della prima Masterclass online di ShorTS, sulla pagina Facebook del Festival, spazio che anche nelle prossime giornate sarà palco di incontri biografici: con Giulio Pranno (7 luglio), con Saverio Costanzo (9 luglio, solo su MYmovies) e con Simone Massi (11 luglio). 

Uno degli spunti della conversazione con Germano è Segnale d’allarme, titolo della trasposizione in Realtà Virtuale – realizzata con Omar Rashid, presente alla Masterclass – de La mia battaglia, opera teatrale scritta da Chiara Lagani e portata in scena proprio dall’attore: un monologo che parla alla e della nostra epoca, un crescendo e un precipitare nel grottesco, in cui lo spettatore viene condotto a confondere immaginario e reale; uno spettacolo a cui si potrà assistere proprio a Trieste, domenica 6 settembre 2020 al Teatro Miela, in collaborazione con lo storico Mittelfest di Cividale. “Per noi è un linguaggio di ricerca, per creare contenuti adattati a contenitori specifici, per cui appena la tecnologia VR è esplosa a livello consumer, la nostra preoccupazione era quella rispetto al sistema troppo individualista e quindi la ricerca è stata nel cercare di elevare il mezzo, affinché fosse un’esperienza collettiva e sociale. L’approccio adottato con Elio è stato sempre rifarsi alla Storia del cinema, come viaggio in determinati luoghi. La mia battaglia teatrale era perfetta: non abbiamo fatto una ripresa, ma una trasposizione adattata alla VR, e l’altro punto di forza emerso costruendola è stata la possibilità di togliere qualsiasi appiglio allo spettatore, che indossa un visore con accanto persone reali, da 60 a 80, e una volta indossato si trova in prima fila, in un altro teatro, con persone vicine, una cosa potente. La possibilità, quindi, è stata poter portare lo spettacolo maggiormente in giro, facendo anche 6 repliche nello stesso giorno. È un linguaggio che si va ad aggiungere, non va a sostituire qualcosa: si crea un medium nuovo, con la propria nicchia di spettatori che non vanno però a corrodere spazio di altre forme d’arte”, spiega Rashid. “Le persone in questo modo si ritrovano in una sala, siamo amanti della sala perché l’esperienza collettiva eleva: per La mia battaglia era necessario tenere le persone inchiodate e il senso della VR era essere strumento per far immergere il pubblico, che con il teatro era molto più caotico; il linguaggio poi è interessante: attorialmente non permette vie di fuga, manca la regia, perché si riprende a sfera, e quindi all’attore manca un riferimento, è molto interessante; e la cosa più forte per il pubblico è il far sentire la percezione di un’altra realtà. La nostra opera adesso è creare delle sale di Realtà Virtuale. Ci piace l’idea di mischiare cinema, teatro, videogioco”, dice Elio Germano, offrendo anche così il via alla conversazione più stretta sul cinema, partendo proprio da una sua affermazione: “L’attore è un mezzo di trasporto”, come gli ricorda Maurizio Di Rienzo, moderatore dell’incontro con Chiara Valenti Omero, co-direttori di ShorTS. 

“Non sono un attore nel senso che lo faccio (altra frase detta da Germano, ndr), perché penso sia un mestiere come gli altri: non è che la nostra vita debba essere impregnata solo di questo, perché negli altri momenti si riempie di altro, che significa anche ragionare con la propria testa, infatti l’indipendenza è qualcosa a cui tengo molto. ‘Fare’ e non ‘essere’ attore mi dà molto più senso di libertà. Per quanto riguarda l’essere ‘mezzo di trasporto’, vuol dire che l’attore funziona quando porta lo spettatore dentro un viaggio, entrando nella storia fino a perdersi, e in questo senso l’attore funziona nel momento in cui non si fa notare, perché far bene il proprio lavoro è sparire, non far rumore, per non rompere la magia”. 

E entrare nelle storie e nelle vite differenti è proprio parte del mestiere dell’attore, così Germano è entrato dentro la vita di Leopardi con Martone, dentro la vita di Nino Manfredi con una grande mimesi e poi dentro la favola nera di Ligabue con Volevo nascondermi, portatore del valore della diversità: “E’ stata un’avventura enorme, anche temporalmente tra le stagioni in cui abbiamo girato. La mole di lavoro comportava, oltre quelle sul set, anche 4/5 ore di trucco: la cosa più importante, che m’ha convinto ad accettarlo, è stato proprio il trucco, perché avevo paura altrimenti di non essere abbastanza un mezzo di trasporto efficace, perché semmai concentrato a dover recitare la voce e l’anima del personaggio. Quando mi sono visto con ‘la mostruosità’ evidente di Ligabue, che mi liberava dal doverla fare, mi permetteva di lanciarmi nelle scene senza dominarle, grazie al trucco di Lorenzo Tamburini con il prostetico,  mi ha aiutato molto. Da quel momento abbiamo iniziato a lavorare sul ‘che cosa’, ed è stato un viaggio infinito: è come se Ligabue ci avesse guidato in questa battaglia campale, al suo servizio, perché spero che appena tornerà in sala sarà d’aiuto a non dimenticare questa persona, che ha vissuto di fortuna in un fiume abbandonato. È stato più di 10 anni in questa situazione, la prima volta che è stato notato era in una balla di fieno: un freak che poi però diventa una cartina al tornasole per l’umanità che ha difronte”.

E quest’anno, per Elio Germano, è stato anche l’anno di un’altra favola nera complessa, Favolacce dei fratelli D’Innocenzo: “Sono molto legato al ricordo che è stato girarlo, perché loro sono due cineasti che hanno deciso di non impostare la propria vita sul dover dimostrare qualcosa, ma mettendo la propria umanità a servizio del mestiere. Ogni mestiere, se fatto con umanità, quindi con sincerità, è più piacevole ma anche più funzionale e più produttivo: il cinema ancora di più, perché si fa con tante persone, e quello che i D’Innocenzo fanno è andare dritti alle cose da raccontare e non siamo più abituati a questo, come invece si dovrebbe. Noi dovremmo capire che tutto ciò che riguarda affetto, commozione e sentimenti, è un valore, che spesso non è quantificabile e spesso sembra non valga molto, e ciò crea dei disastri umanitari”, spiega ancora Germano, versatile interprete per i Vanzina (debutto), Scola, Placido, Vicari, Sollima, Zanasi.  

Parlando, poi, di un altro aspetto del mestiere dell’attore, Germano ripone grande passione anche alla propria categoria “disciolta, dispersa, con gli attori lanciati in una battaglia perenne: abbiamo creato un’associazione, la 7607, che informasse la categoria, che fosse una struttura per noi, 3000 iscritti, e abbiamo trovato il modo di usare i soldi per aiutare la categoria in modo sostanziale, dal pagare i provini al pagare gli avvocati, dando aiuti pratici, come i corsi, o economici in senso stretto. 7607 anche durante il momento COVID ha dato un supporto”.  

Nicole Bianchi
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