Genesis 2.0: nell’Artico alla ricerca del clone perfetto

Il documentario, presentato al Sundance e nelle sale dal 24 settembre con Trent Film, viene definito da uno dei due autori, Christian Frei, come un incrocio tra Mad Max e Jurassic Park


Genesis 2.0 si apre con una voce femminile che recita un antico canto epico della città capoluogo della Sacha-Jacuzia, Jakutsk, Olonkho – Eles Bootur. L’UNESCO nel novembre del 2005 ha dichiarato questo testo un capolavoro dell’umanità, della tradizione umana orale e intangibile. Il poema, che contiene circa 15mila versi, viene recitato da cantastorie. Lì dentro quello scrigno a noi sconosciuto c’è una summa della cultura ancestrale di questi popoli, fatta di rispetto della natura: non bisogna mai prendere più di quello che è necessario per la sopravvivenza e neanche scavare la terra senza motivo.

E’ la parte più affascinante del documentario, presentato al Sundance e nelle sale dal 24 settembre con Trent Film, che uno dei due autori, Christian Frei, definisce un incrocio tra Mad Max e Jurassic Park. Ed è vero che il film ha due anime anche piuttosto lontane una dall’altra. E’ infatti bipartito non solo nella narrazione ma anche nella realizzazione: la parte contemporanea è curata dal regista e produttore svizzero Frei, già candidato all’Oscar per il documentario War Photographer, quella arcaica al regista russo Maxim Arbugaev, che ha trascorso un’intera stagione con i cacciatori di avorio di mammut nella Siberia settentrionale.

Ogni estate decine di uomini lasciano i propri villaggi del Continente per raggiungere le remote e disabitate Isole della Nuova Siberia, affrontando la navigazione su uno stretto di 350 km di Oceano Artico, spesso in tempesta, a bordo di un gommone. In questo inospitale arcipelago vanno alla ricerca del cosiddetto ‘oro bianco’, antiche zanne di mammut, un’operazione oggi sempre più facilitata dal riscaldamento globale che, provocando lo scongelamento del permafrost, porta alla luce un numero progressivamente maggiore di questi antichi fossili. Li venderanno, se tutto va bene, per qualche migliaio di dollari a compratori, spesso cinesi, che poi utilizzano l’avorio fossile per realizzare sculture che valgono milioni. Ma al ritrovamento di una zanna sono anche legate leggende antiche e potenti che prevedono sciagura per chi si imbatte nei resti di uno di questi animali, proprio perché non bisogna prendere più del necessario e profanare il riposo eterno. Questa parte, con echi da un classico come Nanuk l’esquimese di Flaherty, ma soprattutto con la lezione del miglior documentario di avventura alla Herzog, quel cinema che cerca di portarci oltre i limiti del possibile e a fare dell’uomo un Dio, si collega all’altro versante del film, la bioingegneria genetica, attraverso il ritrovamento di una carcassa ibernata ed eccezionalmente conservata – addirittura con qualche campione di sangue – che attira l’attenzione dello scienziato Semyon Grigoriev, ossessionato dall’idea di poter clonare gli animali preistorici.

Mentre Arbugaev attraversa insieme agli altri uomini della spedizione i gelidi e maestosi paesaggi della Siberia settentrionale alla ricerca faticosa di preziosi resti, Frei porta gli spettatori in giro per il mondo: nel bizzarro museo russo dedicato ai mammut; a una conferenza scientifica di biologia sintetica a Boston, dove giovani studenti lavorano su ibridi genetici; nella National GeneBank cinese, gestita dal Beijing Genomics Institute (BGI), in cui i geni sono sequenziati e la vita diventa ‘big data’ (con risvolti inquietanti e fantascientifici); e nel campus aziendale di Sooam Biotech in Corea del Sud, dove gli scienziati che hanno già clonato centinaia di animali domestici – per 10mila dollari si può riavere una copia identica del proprio cagnolino defunto – manipolano la vita. La creazione del cucciolo di mammut è ancora da realizzare ma il mondo degli ibridi genetici – come il cavallo zebra o il leone tigre – e della vita oltre la vita è già una realtà ben più concreta di quanto potremmo immaginare. 

Cristiana Paternò
17 Settembre 2020

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