Pallottole, senzatetto e scomparsi nel Paese del Sogno

Un viaggio all’interno di un Paese e delle sue contraddizioni, 'My America' di​ Barbara Cupisti, Fuori Concorso al TFF


Un viaggio all’interno di un Paese e delle sue contraddizioni, in cui l’America raccontata da Barbara Cupisti (autrice di Madri; Fratelli e Sorelle e della trilogia Esuli) non appare più tanto come un sogno da agguantare quanto piuttosto un incubo da cui fuggire. My America, documentario presentato Fuori Concorso al Torino Film Festival, racconta il diffuso malessere sociale americano attraverso eventi e situazioni drammatiche – dalla violenza delle armi, al problema dei senzatetto agli effetti delle politiche migratorie –  ma anche la capacità e la determinazione di cittadini comuni, attivisti e volontari che si battono per la giustizia sociale e cercano di riparare la fibra morale di una nazione ritenuta, paradossalmente, il Paese della libertà e della prosperità, fondata su principi di democrazia e uguaglianza.

‘Il Sogno Americano esiste ancora e se esiste dov’è?’ si domanda la regista che vive negli Stati Uniti dal 2014. “Da quando vivo negli Stati Uniti, ho capito che in quella che è considerata la più grande democrazia del mondo ogni giorno si vivono conflitti interni che producono un numero enorme di vittime, numeri di una guerra. Mi sono resa conto che le informazioni che arrivano in Europa, ma anche negli stessi Stati Uniti, tramite i media ufficiali, sono parziali e non catturano a pieno il livello di conflitti, violenza e di povertà che sono parte integrante, anche se meno evidente, della società americana”. My America è diviso in tre capitoli ben separati, perché, racconta la regista, “c’era bisogno di dare al pubblico chiarezza e possibilità di concentrazione su ogni argomento”. Il film ha anche un quarto capitolo che per questioni di fruizione cinematografica è stato tolto dalla struttura presentata al festival, dedicato agli oppiacei, “una piaga molto presente negli Stati Uniti e peggiorata in maniera esponenziale con la pandemia”.

La pellicola prende il via con le immagini scioccanti della sparatoria del 2018 nella scuola di Parkland, in Florida, dove diciassette ragazzi persero la vita per mano di un ragazzo che, in maniera inquietante, si riprende prima di compiere la sparatoria. La risposta di Trump all’epoca fu la proposta di armare gli insegnanti, ma a seguito di quel tragico evento, l’ennesimo in un Paese in cui ci sono state censite più armi da fuoco che persone, molti ragazzi si riunirono per manifestare pacificamente per una maggiore restrizione sulla vendita delle armi dando vita alla manifestazione studentesca March for Our Lives, che da Washington arrivò a coinvolgere due milioni di persone che hanno marciato in 800 diverse località degli Stati Uniti. “Questo è stato l’inizio di quello a cui si sta assistendo oggi – sottolinea la regista – Se il voto è cambiato è stato anche grazie ai tanti giovani che sono andati a votare, e i ragazzi di ‘March for Our Lives’ sono riusciti a fare qualcosa che è stato sempre difficile: scuotere le coscienze e creare un ponte culturale di comunicazione tra ragazzi di buona famiglia e giovani che vivono nelle borgate più violente delle metropoli dove l’uso delle armi è all’ordine del giorno”.

“Nei posti in cui sono cresciuta quando sentono degli spari i ragazzini continuano a giocare, a divertirsi, vanno avanti come se nulla fosse perché a lungo andare tutto questo diventa normale”, racconta, infatti, nel film una delle attiviste di GoodKids Madcity, sorella di una delle tante giovani vittime di sparatoria che tiene ora corsi di primo soccorso nei quartieri afro e latini. “Qui esiste una vera cultura delle armi e del possesso delle armi”, spiega uno dei giovani organizzatori divenuto simbolo della protesta, Cameron Kasky. “Gli americani sono ancora legati al diciottesimo secolo quando riuscimmo a liberarci dal controllo coloniale, uniti tutti insieme per combattere. Siamo ancora affascinati da quell’immagine idealizzata della vecchia America, e quel tipo di ideologia persiste ancora oggi. Ma i buoni con la pistola sono solo un mito”.

Non c’è, però, solo il problema delle armi da fuoco nella civilissima e democratica America: ogni notte nel paese più ricco del mondo oltre mezzo milione di persone dorme per strada. “Gli homeless sono una realtà molto diffusa in tutti gli Stati Uniti”, denuncia la regista che ha scelto di concentrare il suo sguardo su Los Angeles, dove il problema è molto più esteso: “Una popolazione gigantesca vive in una sorta di campo profughi, nel centro di Los Angeles, a pochi blocchi da Hollywood, e molti americani ne ignorano l’esistenza”. E se nel sentire comune si può pensare che finiscano a vivere per strada persone con problemi di dipendenza, ai margini della società o con disturbi mentali, il documentario denuncia tutta un’altra realtà: in America basta saltare un mese di stipendio, basta solo una rata mancata della carta di credito, una gravidanza inaspettata, un licenziamento, ci sono mille motivi per cui è possibile finire per strada.

È dedicato, infine, ai migranti il terzo capitolo, a chi dal Sudamerica muore nel deserto nel tentativo di attraversare il confine messicano con l’America per aiutare le proprie famiglie. A chi conosce il rischio ma decide di provarci comunque perché conosce anche la violenza e le sofferenze da cui scappa. Ma è anche dedicato ai volontari che cercano di aiutare, ai Samaritans, un gruppo di pensionati che vivono in Arizona, al confine col Messico, e che una volta a settimana passa dall’altra parte, per portare acqua che nasconde nelle rotte in cui passano migranti, e piantare croci per onorare e rispettare quanti in quel viaggio disperato hanno perso la loro vita.

My America, le cui riprese sono state realizzate interamente in particolare a Chicago, Los Angeles e in Arizona, è una produzione Clipper Media con Rai Cinema, con il patrocinio del Robert F. Kennedy Human Rights. È stato, inoltre, realizzato con il sostegno della Regione Lazio- Fondo regionale per il cinema e l’audiovisivo.

Carmen Diotaiuti
23 Novembre 2020

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