Lo cunto de li cunti: alle Giornate degli Autori il doc racconta

Da Giovanna Taviani con Cuntami a Caveman, Hugo in Argentina e Diteggiature, tutte le sfumature dei doc di questa edizione


Raccontare e cantare, anche con i mezzi offerti dall’arte documentaristica. Sembra essere questa una delle tracce seguite – non sappiamo quanto consapevolmente, ma non è così rilevante, perché l’importante è il percorso – dai selezionatori delle opere che passano alle Giornate degli Autori della 78ma Mostra del Cinema di Venezia.

Elisa Fuksas in Senza Fine mette in scena la figura artistica di Ornella Vanoni, collocandola in una località termale fuori dal tempo – nella Lucia Magnani Health Clinic del Grand Hotel Castrocaro Terme – un hotel anni ’40 in cui l’energia, il carattere, la musica, la passione e l’ispirazione di una delle icone più amate della musica italiana prenderanno corpo. Una Vanoni allo specchio con gli incontri, gli amici e i musicisti che hanno fatto parte della sua esistenza, tra racconto, memoria e progetti futuri.

Tonino De Bernardi, un tempo un incontro di Daniele Segre racconta soprattutto un’amicizia, quella tra i due registi che, non vedendosi da tanto tempo, decidono di fare un viaggio. Un viaggio non fatto di chilometri, ma di idee. Daniele va a prendere Tonino in macchina, attraversano Torino e raggiungono la sede della società I Cammelli che diventa il set del film dove entrambi girano permettendo di vivere e farci vivere l’intensità di un rapporto che in modo estremamente naturale e diretto racconta la storia cinematografica di De Bernardi grazie a sequenze del suo cinema, al suo racconto dagli esordi a oggi a 84 anni sempre nella ricerca spasmodica di fare cinema, non a caso compagna della sua quotidianità un piccola telecamera dalla quale non si separa mai e che utilizza sempre e comunque.

Caveman di Tommaso Landucci racconta invece chi forgia immagini a partire dall’informe, lo scultore Filippo Dobrilla,  che per trent’anni si è calato nell’abisso di una grotta delle Alpi Apuane per dare forma a un’opera che in pochissimi ammireranno dal vivo, con un legame tematico implicito con Il buco di Michelangelo Frammartino, in concorso, che si concentra sulle imprese di un gruppo di speleologi.

Fellini e l’ombra di Catherine McGilvray è uno omaggi a un Fellini “segreto”. Le tracce di questo segreto sono nel Libro dei Sogni e nel rapporto di Fellini con il dottor Bernhard, suo analista e pioniere della psicoanalisi junghiana in Italia, senza il quale il film capolavoro 8 1/2 non sarebbe mai stato realizzato. Altre tracce appaiono anche in alcune coincidenze, nelle testimonianze degli amici, nei luoghi cari a Fellini: Roma, Rimini, la Tower House di Jung a Bollingen. Ma quello che Claudia scopre è anche qualcosa di magico e commovente: la certezza che per Fellini il sogno è la sola vera realtà.

Un fumettista italiano sbarca a Buenos Aires nel 1950, con il sogno di raggiungere gli Stati Uniti, per scoprire che la sua America sarà proprio l’Argentina. Il suo nome è Hugo Pratt, ed è destinato a diventare un maestro, creatore, tra gli altri, del leggendario Corto Maltese. Questo racconta Hugo in Argentina, dello svizzero Stefano Knuchel.

E poi ci sono le marionette, i “pupi”, che ci portano al culmine del viaggio e a Diteggiatura di Riccardo Giacconi, sull’Atelier Colla, compagnia di spettacoli. «I tuoi piedi sono legati con degli stracci bianchi, le tue mani sono legate dietro la schiena. Una maschera ti copre il volto, e ti trovi su un palco, sola. Il film inizia con questa frase. E’  il punto di vista di una marionetta – un essere non umano, di fronte a un pubblico di umani – scritta da un essere umano, ma da una macchina. Più precisamente, è stato scritto da un generatore di testo basato su una rete neurale artificiale che, a partire da un input testuale, è in grado di produrre uno scritto di qualsiasi lunghezza, su qualsiasi argomento.

E i “pupi” sono protagonisti dell’evocativa sequenza di apertura di Cuntami prodotto da Cloud 9 Film in collaborazione con Rai Cinema, splendido viaggio di Giovanna Taviani nel mondo dei cantastorie siciliani, a partire da Mimmo Cuticchio, primo e unico cuntista e puparo vivente, ma anche seguendo gli allievi della sua scuola, che usano ogni mezzo, dalla chitarra alla pura voce, all’espressione, ai gesti, in vere e proprie performance attoriali, per raccontare ciò che serve, ciò che è esigenza raccontare, che si tratti della chanson de Roland, del Macbeth, di miti antichi come quello di Polifemo o di storie di Mafia e redenzione, di protesta e accettazione. I pupi si tuffano – non vengono immersi, si tuffano. Perché sono vivi, come spiega Cuticchio nel film. Ognuno ha un nome e una personalità –  in uno scenario oceanico che rappresenta forse il nostro inconscio, con i suoi rimossi ma anche le sue fascinose ombreggiature.

“L’intento – dice la regista – era di predisporre al ritorno delle storie di quando eravamo bambini. L’era dei social ha reso il racconto sterile. Mentre noi a Roma negli anni ’70 ci sballottavamo tra destra e sinistra, tra fascismo e antifascismo, in Sicilia stavano in piazza a raccontare storie. Erano le sentinelle dell’informazione e gli alfieri della controinformazione, questi cantastorie, contro la propaganda del potere. Era il massimo del gesto politico possibile. La denuncia avveniva nei crocicchi, direttamente rivolta al popolo. Questo significava essere militanti”.

Una Sicilia diversa, insomma. “Non solo quella dei qualunquisti raccontata da Tomasi Di Lampedusa, dove si fa in modo che tutto cambi perché tutto resti lo stesso. Questa era una sorta di ‘nouvelle vague’, che non solo parla, ma sente, ma ricorda, e voleva cambiare le cose”.

Ma perché in Sicilia questa tradizione sopravvive ancora, mentre nel resto del paese no? “Perché funzioni – spiega Taviani – devi avere un pubblico. E in Sicilia c’è. C’è un patto con l’ascoltatore, e c’è un senso di comunità che altrove non esiste. C’è il senso della famiglia, nel bene e nel male. Se a Roma mi si rompe la macchina non posso contare su mio fratello o mia sorella che vengano a ripararla. Lì la solidarietà è primaria, c’è interdipendenza e l’individualismo è bandito. Questo crea un linguaggio comune, che si perde dove si passa le sere da soli a vedere i film sul cellulare. Ci sono le piazze, la geografia aiuta. I cantastorie vanno nei teatri greci abbandonati a recitare Eschilo, e la gente va a vederli alle cinque di mattina. L’edicolante sa chi è Cuticchio, e potrebbe anche conoscere l’Orlando Furioso, cosa che difficilmente avviene nelle città. E’ tutto nato da un’esperienza personale, ho conosciuto un mondo nuovo quando mi sono trasferita in Sicilia, tra Cuticchio, la sua scuola e il festival ‘La macchina dei sogni’. Tanti attori ora lanciati nel cinema e nella fiction vengono da lì. In una scena, entusiasmante, Cuticchio brandisce la spada – un elemento di scena – del suo Maestro, raccontando che la prima volta che l’ha impugnata le parole del ‘Cunto’ gli sono uscite spontaneamente dalla bocca.

“E’ Excalibur – chiude Taviani – è la lancia di Don Chisciotte. Un oggetto magico. Cuticchio la venera, ha fatto uscire tutti dallo studio prima di tirarla fuori. E’ un tramite di musicalità, battuta sul pavimento con un ritmo che rimanda al rap. Non è un mondo così distante da quello dei giovani. Per questo si può partire da qui per raccontare la tradizione”.

Andrea Guglielmino
02 Settembre 2021

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