‘Il buco’ e lo smarrimento temporale degli abissi

‘Il buco’ e lo smarrimento temporale degli abissi


VENEZIA – Il buco – titolo del film di Michelangelo Frammartino, in Concorso con la sua terza opera in carriera – si visualizza subito, dalla prima inquadratura, uno sguardo dal basso all’alto, dall’interno della cavità al cielo. Seppur la missione – così la macchina da presa – poi ribalti la via, e scenda nella direzione dell’assenza di luce. 

“La grotta ti costringe ad un rapporto con il tempo molto diverso, lì sotto c’è una dimensione temporale differente: non c’è ciclo giorno-notte, non c’è cambiamento termico, succede qualcosa di ormonale. C’è uno smarrimento temporale che appartiene agli abissi”, spiega l’autore calabrese. 

Frammartino ha la bellezza negli occhi e la capacità di restituirla sul grande schermo con una regia epica, che s’immerge nell’utero petroso e caldo (per il colore con cui sono scaldate dalla fotografia le pareti) dell’Abisso di Bifurto, Parco del Pollino, Calabria, profondità – o verticalità al contrario – di 687 metri sottoterra, che l’allora Gruppo Speleologico Piemontese raggiunse nel 1961, partendo dalla Stazione Centrale di Milano, alla conquista della seconda profondità assoluta del tempo.

“Sembra un film coraggioso per l’ingresso nell’abisso: le prime entrate in grotta, per me, erano dettate dal terrore. Io sono calabrese e la Calabria è una terra con una dimensione informe importantissima, è una terra contraddittoria: l’informe è una dimensione della nostra cultura italiana. La verticalità è sempre stata una mia fobia, non avrei mai pensato di fare un film di questo genere”, dice Frammartino, che per l’anteprima veneziana sfila sul red carpet con il gruppo speleologico in tenuta da missione originale del tempo

Così Giulio Gecchele (84 anni) – che capitanò la missione, e che calpesta il tappeto rosso – spiega: “Penso la speleologia sia cambiata dal punto di vista tecnico, ma da quello filosofico e ideologico resti la stessa: un’attività che si fa insieme, in cui ognuno sa di essere custode del suo compagno, purché l’altro si salvi. È un’attività faticosa, in cui si struscia nel fango e si è sempre bagnati. Il movente dell’andare in grotta rimane lo stesso: mettere a disposizione di tutti le scoperte dell’esplorazione, oltre ad andare in luoghi in cui l’umanità non è mai arrivata”.  

La bellezza estetica della visione di Frammartino, complice la spettacolare fotografia curata da Renato Berta (ha lavorato con maestri come Godard, Resnais, Rohmer, Rivette, Malle, Téchiné, Huillet-Straub, De Oliveira, Gitai, e ha ricevuto, tra gli altri, riconoscimenti italiani anche con Mario Martone), sono calamita per l’estasi dello sguardo, che probabilmente raggiunge il suo culmine nelle sequenze in cui all’interno dell’Abisso gli speleologi infiammano pagine di riviste del tempo – “Epoca”, una per tutte – per poi lasciarle volare all’ingiù, fino alla profondità ultima del buco, necessità pratica per la missione che permette al regista suggestive inquadrature a piombo sulla caverna verticale e un’immersione fisica e cromatica tra le pieghe di pietra della stessa. Eppure, questa epica visiva, capace d’illuminarsi di luci caravaggesche, non si può dire riesca a mantenere lo stesso passo anche nella narrazione, che di per sé ha uno spunto reale mitico, ma nella diluita, lentissima, quasi completamente silente di parole messa in scena non passa lo stesso pathos di cui godono gli occhi. 

“Il cinema del reale ha a che fare con qualcosa di ingovernabile”, continua Frammartino, che con la macchina da presa, per il film, è sceso fino a -400mt sottoterra. “Il fascino della grotta è che non vedi i personaggi ma il loro sguardo, che costruisce lo spazio, uno spazio fuori controllo. Renato Berta ha costruito le luci consapevole della possibile perdita di controllo. Lui non è sceso, c’era una squadra speleo, che con una bobina di fibra ottica gli rimandava le immagini: lui era seduto in una stanza buia, fuori dal set, come se fosse stato lo spettatore finale al cinema”. 

Giovanna Giuliani, co-autrice del film, spiega: “C’è stato il pensiero di inserire attori, ma mi sono presa la responsabilità di scegliere solo speleologi: in grotta fa un passo indietro l’umano, perché è un territorio non antropizzato. È un’esperienza in cui metti alla prova la capacità di sopportazione”.  Infatti, gli attori de Il buco sono i pastori del Pollino, come reali sono i dodici speleologi, tra cui Leonardo Zaaccaro (41 anni), anche lui al Lido, per cui: “Si scende anche perché la speleologia è l’unica attività che ti permette di fare esplorazione geografica, non prevede satellite”, come in superficie. 

Nell’Italia del Boom, quando il traguardo dell’ascesa era rappresentato anche dallo sbocciare di metallici e vitrei fiori verticali come il Grattacielo Pirelli di Milano – che Frammartino mostra in un’interessante sequenza documentaria in bianco e nero -, l’entusiasmo per il benessere si specchia anche in missioni come quella che dà spunto a questo film, indubbiamente metafora di un’epoca ma anche del tempo in senso più ampio, incarnato qui nell’anziano pastore, simbolico punto sulla linea della cronologia storica e del passo della Natura, nella sua circolarità di vita e trapasso.  

Il film, una produzione Doppio Nodo Double Bind con Rai Cinema, esce con Lucky Red ad inizio 2022: “Non abbiamo girato pensando all’ipotesi del Concorso, infatti ci ha sorpreso, soprattutto perché questo è un cinema carsico”.   

Nicole Bianchi
04 Settembre 2021

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