‘Matti per il calcio’ dal documentario alla fiction

Passa alla festa del cinema Crazy for Football - Matti per il calcio di Volfango De Biasi, tratto da un doc omonimo che ha vinto il David di Donatello


Tutto nasce da un documentario. Crazy for Football era in origine un doc del 2016 diretto da Volfango De Biasi, vincitore di un David di Donatello, realizzato con il sostegno della Regione Lazio Fondo regionale per il cinema e l’audiovisivo, con il patrocinio della Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) e con il sostegno della Fondazione Roma Lazio Film Commission, che raccontava la storia di un gruppo di pazienti psichiatrici provenienti da diversi dipartimenti di salute mentale di tutta Italia, uniti da un sogno: quello di partecipare ai mondiali per pazienti psichiatrici a Osaka, in Giappone.

Accompagnati dallo psichiatra Santo Rullo e coordinati da Enrico Zanchini (allenatore) e dall’ex pugile Vincenzo Cantatore (preparatore atletico), il gruppo di pazienti affrontava diverse sfide sul campo per riuscire ad entrare nella rosa finale dei 12 giocatori che parteciperanno al ritiro e, successivamente, al campionato mondiale. Il doc prendeva spunto dal lavoro svolto da Rullo, presidente dell’associazione italiana di psichiatria sociale, già raccontato da un altro piccolo documentario autoprodotto, dal nome Matti per il calcio, sempre diretto da Volfango De Biasi in collaborazione con Francesco Trento nel 2004.

Quindi questo film di fiction che unisce i due titoli (Crazy for Football – Matti per il calcio) che passa alla Festa del Cinema di Roma, dello stesso regista, con un super cast composto da Sergio Castellitto, Antonia Truppo, Max Tortora e Massimo Ghini potrebbe considerarsi come il terzo capitolo di una fortunata trilogia. Le riprese si sono svolte a Roma per una durata di 6 settimane e la struttura del film è grossomodo quella del documentario precedente, abilmente riportata al linguaggio della fiction.

Castellitto è lo psichiatra che vede nel non solo gioco ricreativo di squadra, ma anche un momento terapeutico comune, che fa sentire tutti uguali e parte di qualcosa. Il film segue tutta la formazione della squadra, a partire dai provini, fino alla competizione e la partita sul campo, che mostra come i giocatori siano dei veri eroi per se stessi, in grado di trovare in questa passione sportiva un nuovo modo per curare il loro dolore e combattere un pregiudizio spesso legato alla malattia mentale.

Va in onda su Rai Uno in prima serata dal 1° novembre.

“Anche il montaggio di un documentario è finzione – dice il regista – ma passare al film permette di aggiungere momenti di intimità e umanità. In sala da ragazzo vedevo pubblicità progresso, pietismo, dolore, mentre al sociale va associato il meglio, la Rolls-Royce, lo slancio e l’amore. Avevo anche pensato di usare direttamente i pazienti ma non era possibile, i ragazzi sono sotto psicofarmaci e imparare un copione e stare nei tempi li avrebbe massacrati. Così ho capito che ci volevano gli attori e ho cominciato i provini, poi siamo andati a visitare la vera nazionale, abbiamo imparato a giocare a pallone, abbiamo fatto la diagnosi con lo psichiatra e tutto. A volte mi chiedevano se gli attori fossero veramente i pazienti. Io quel documentario non l’ho girato, faccio parte del gruppo fondante della nazionale, che sono amici di infanzia. Capirete cosa vuol dire per noi arrivare su Rai Uno. Non volevo andare ai premi, o fare un film poco visto. Volevo fare una favola nazional popolare che entrasse nelle case e nel cuore della gente. E poi lavorare con degli amici, dalla mia troupe ai produttori, con un clima di amicizia, leggerezza e compartecipazione a un tema importante. Il calcio è un grande linguaggio popolare, e magari porto qualcuno a pensare di curarsi, di muoversi per guarire. Così si lavora contro lo stigma. Immaginare che il mio amico di infanzia Sergio Rullo viene interpretato da Sergio Castellitto significa tanto. E’ come un enorme spogliatoio calcistico, spero diventi una serie”.

“Sono stato travolto dal documentario, dall’entusiasmo di Volfango – racconta Castellitto – la materia della psiche è intrinseca nel ruolo dell’attore, e avevo già lavorato sul tema ne Il grande cocomero e In treatment. Il calcio è un gioco di squadra ma qui è un mondo dove si aggregano solitudini. Il disagio mentale è una solitudine. Entrare nel mondo di ragazzi e uomini fermi al trauma e capire come si potesse ‘guarire’, anche se non si guarisce mai, è stato interessante. Anche le persone ‘normali’ dovrebbero riflettere sul concetto di guarigione. L’attore stesso è un disabile psichico per eccellenza, una persona divisa. Inoltre è l’anno in cui lo sport italiano la canta a tutti. E mi piace il fatto che alla fine non ci sia una vera vittoria. A volte anche vincere la medaglia di bronzo è una vittoria. Non si guarisce se si vince e nemmeno se si partecipa, ma si guarisce se ci si porta a casa un’amicizia, una relazione umana, un’intimità. Il vero disagio è la solitudine. Lo psichiatra dovrebbe essere quello che consegna le chiavi per capirci meglio, ma è una persona problematica anche lui, gli psichiatri lo sono sempre. Non è un uomo perfetto, è un padre inadeguato, un marito fuggitivo. Le nostre fragilità ci rendono speciali, non le perfezioni. Ci sono calciatori considerati regolari che prendono a morsi le orecchie degli avversari. Penso sempre alla storia e alla sceneggiatura, anche i personaggi reali sono inventati dalla penna dello scrittore, se poi sono contemporanei hai un vantaggio, ma anche il rischio del costruire un’icona o un conflitto. Cerco di lavorare sull’immaginazione, questo è il ruolo dell’attore. Mentire simulando la verità. Anche l’attore racconta storie, e non solo un performer. Il mio personaggio racconta fallimenti e fragilità, in questo è molto vicino ai ragazzi definiti clinicamente portatori di disagio. Un attore bravo dovrebbe sempre sentirsi un po’ inadeguato, o fa il monumento a sé stesso. La cosa più grave per un attore è smettere di recitare e cominciare a rifare quello che già sa fare. Bisogna avere un atteggiamento studentesco. Io ho sempre il panico, mi sento sull’orlo di un baratro, faccio del mio meglio ma non so mai se sarà abbastanza”.

La produttrice Carolina Terzi ricorda che la società che produce il film “si chiama MAD. Non è un caso. E’ una società che cerca o incontra progetti che sono vicini all’anima delle persone che ci lavorano. Crazy for Football è nato perché un’amica mia e di Volfango ci ha fatti incontrare, quasi per caso. E per amore delle vicende reali, della squadra che disputa i mondiali e aiuta le persone con problemi a reinserirsi, e di Santo Rullo, abbiamo pensato che fosse un esempio non solo dell’Italia migliore, che combatte per ciò che ama fare. Così va raccontato il disagio che nasce da cose che possono accadere a tutti. L’aspetto narrativo diventa interessante e divertente, una dramedy alla Quasi Amici, con problemi reali raccontati con la leggerezza che può accattivare il pubblico o l’audience. Vogliamo raccontare la storia di tanti matti come noi”.

Antonia Truppo chiude in bellezza: “quando mi hanno intercettata per il film ho capito che avevo un certo terrore della malattia mentale, soprattutto di finirci dentro e restare sola. Ho avuto alcune prossime conoscenze con problemi e li ho sempre temuti. Il copione affrontava il tema con profondità, così come il documentario ma in realtà questo aspetto viene trattato in maniera vera attraverso l’elemento di commedia latente. Amavo l’idea di interpretare un personaggio ‘di mezzo’ tra i pazzi e il vero pazzo, che è lo psichiatra, che fosse fuori dagli schemi, amavo l’idea di parlare di calcio perché in quel frangente, quando lo psichiatra spiega che ci sono sempre portieri, attaccanti, chi fa goal e chi lo prende, normalizza la situazione. Questo mi ha aperto alla comprensione della malattia”.

Andrea Guglielmino
19 Ottobre 2021

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