L’anima delle montagne nella fratellanza di Borghi e Marinelli

"Le otto montagne" in Concorso, dal premiato romanzo di Paolo Cognetti: protagonisti Alessandro Borghi, Luca Marinelli, Filippo Timi. In uscita nella seconda metà dell'anno


CANNES – Dallo Strega a Cannes. Dal Premio letterario al Concorso cinematografico. Le otto montagne nasce sulle pagine di Paolo Cognetti, che nel 2017 vince il riconoscimento per il romanzo, che adesso arriva sul grande schermo al Festival, nella selezione principale appunto, diretto a quattro mani, da Charlotte Vandermeersch e Felix Van Groeningen, e anche recitato “a quattro mani”, da Alessandro Borghi (Bruno) e Luca Marinelli (Pietro). 

“L’amicizia è un luogo dove metti le radici”, recita la voce off in uno dei primi istanti del film, restituendo subito l’essenza del divenire. È Pietro Guasti che parla, dodici anni nei prossimi mesi, come Bruno, in quell’estate dell’84 a Grana, Valle d’Aosta, dove si conoscono per la prima volta un figlio unico dalla città, Torino, il primo, e un omologo, orfano e selvatico, tra i 14 abitanti di quel paesino montano, in cui la famiglia del ragazzino torinese trascorre le vacanze estive. 

“Per noi la realtà di creare lontano da casa rispondeva all’autenticità di questa storia italiana: ci siamo trasferiti in Val d’Aosta a scrivere la sceneggiatura. Cognetti è stato molto generoso con noi, così come i talenti italiani con cui abbiamo potuto lavorare”, racconta la co-regista Vandermeersch, per cui quella tra Pietro e Bruno “È un’amicizia irricorrente, al cinema e nei libri. Fra loro – i personaggi – c’è davvero un sentimento delicato, nessuna competizione, spesso non hanno bisogno delle parole, per il loro rapporto fragile e forte”. 

“Luca è un fratello, e questo è stato un regalo nato da Claudio Caligari (per Non essere cattivo). Vedendo Le otto montagne, e pensando all’esperienza, non avrei potuto immaginare storia migliore per ri-trovarci professionalmente. Poi, un libro così bello ti costringe a fare una cosa bella almeno la metà: il cinema esiste ed è meraviglioso, ma qui rimangono connessioni umane e per raccontare Pietro e Bruno mi sono attaccato all’amore vero per Luca e il pensiero verso Caligari è stato costante, anche perché ci ha insegnato a fare il cinema solo quando ci sono cose da dire, e qui ce ne sono molte. Mi incuriosirebbe fare il giro delle ‘otto montagne’, ma poi mi accorgo di salire spesso nella stessa direzione: da più giovane avevo il fascino per l’estero, ma adesso capisco di non essere per forza interessato alle grandi strutture con grandi possibilità finanziarie”, quando ci sono qui storie importanti con cui misurarsi, dice Alessandro Borghi, che specifica: “I miei personaggi, nel tempo, si sono sempre contraddistinti per un elemento di rottura, mettendosi a confronto con le proprie debolezze”. 

Per Luca Marinelli, “re-incontrare Alessandro professionalmente era un sogno. È stato fare un film prendendosi per mano: per primi, questo gesto l’hanno fatto i registi, così come Cognetti. Un trionfo di amore. In questo mestiere è bello fare un grande lavoro di esplorazione ed è fondamentale raccontare storie di persone, che siano uomini o donne non è importante, ma serve ci sia un grande sentimento”. 

Infatti, per Elena Lietti: “Nel film, laddove gli uomini non riescono a parlare, intervengono le donne: il mio personaggio è interventista, ma lo fa felicemente, e aiuta il figlio a coltivare il rapporto con Bruno. Le donne hanno una funzione molto utile, così il mio è un personaggio molto tridimensionale”. 

Le montagne sono metafora e consistenza in questo film, sono simbolo di ascese e precipizi, di scalate e corse a perdifiato, fisiche e interiori: Pietro sale per la prima volta in vetta con Giovanni (Filippo Timi), il papà ingegnere stakanovista, con la montagna quale unica passione oltre al lavoro. E poi s’inanellano una passeggiata all’alpeggio in cui Bruno collabora con lo zio casaro, e una salita a tre, loro tre – Pietro, Bruno, e il papà -, come una famiglia, su un ghiacciaio, “memoria degli inverni passati”, spiega Giovanni ai due bambini, tra senso del tempo e senso del rispetto del cronometro della Natura, come della vita. “Credo mio papà abbia fatto di tutto per non buttarmi addosso le sue ansie, ma comunque – volente o nolente – mi sono arrivate, insieme alle passioni naturalmente, e qui ‘le montagne’ arrivano a Pietro dal papà. Poi, subentra per tutti – come nella vita – il dover superare l’impronta da cui arrivi, per mettere la tua”, commenta l’attore umbro.  

Bruno arrampica sentieri e pareti come uno stambecco, ha un rapporto vivo con la terra e gli animali, piuttosto zoppica a scuola, così per un momento si apre l’ipotesi che – dopo l’estate montana insieme – si trasferisca in città, a casa Guasti, per studiare, al liceo, mantenuto in tutto da loro, che credono nella sua vivace intelligenza. Il piccolo torinese va un po’ in crisi all’idea, teme che le brutture della città possano rovinare la bellezza genuina dell’amico, dice alla mamma. Ma per Bruno, 13 anni, c’è imminente una vita adulta, subito in cantiere: “non credo sapesse cosa fosse l’adolescenza” riflette poi Pietro qualche anno più tardi, in quegli anni in cui più si sono rotolati nelle verdi dolci scoscese o reciprocamente schizzati addosso gli zampilli gelidi dell’acqua di un torrente, né visti, più. No, perché Pietro non è più salito in montagna, per 15 anni, tempo “di ribellione”, di distacco, anche assoluto. 

“La montagna non la conoscevo come l’ho conosciuta col film, non certo i 4400mt a cui siamo arrivati in Nepal. Paragono la montagna al mare aperto, per affrontarli devi essere un ‘marinaio d’esperienza’: lì mi sentivo in mezzo al mare, goffo, in pericolo, e intanto mi innamoravo dei luoghi. Sulle montagne ho imparato la pazienza del passo dopo passo e Cognetti è stato un grande maestro di montagna, un contesto anche di spiritualità, il silenzio ti riporta a te stesso e agli altri”, continua Marinelli.  

Per Borghi, quello verso la montagna, è stato “un processo di innamoramento da 3/4 anni a questa parte, re-iniziato in un’altra maniera ancora col film: la amo profondamente e poterla vivere con gli occhi dei montanari è stato un dono; tra i tanti, mi ricordo un ragazzo di 17 anni, un omone, che gestisce da solo un alpeggio. Non so se abbia a che fare con la spiritualità la montagna, ma per me ha a che fare con la meditazione”. 

“C’è la casa al centro della storia, carica di significati, e mi piace la verità del legno e della pietra di quell’abitazione, a 2300mt d’altezza, a un’ora di sentiero da casa mia: ero lì anche l’altro ieri, c’erano gli stambecchi. È il cuore della storia, rifugio della loro amicizia”, per l’autore del romanzo. 

La storia del film ci racconta che Pietro torna a Grana trentenne per suo papà, per un rudere isolato il cui desiderio è che si trasformi in una casa: “questa è casa nostra”, dirà Pietro a Bruno, ritrovato compagno nella costruzione di quel nido famigliare, di quel ventre materico naturale, lì in mezzo alla pace e all’autorevolezza delle montagne. Un senso di fratellanza si ravviva dall’infanzia, e Pietro – insofferenze alla vita di città, dove lavora, adesso come cuoco, poi chissà – fa un andirivieni da Torino alla Valle, quando poi l’andirivieni diventa dalla Valle al Nepal, per un’altra montagna, alla ricerca di una sempre più profonda dimensione interiore. D’altronde, quella è la vera eredità di suo papà. E lì, esplorando l’Himalaya, Pietro conosce “le otto montagne”, così “gli otto mari” e “il centro del mondo”, trovando poi anche le parole per tutto, quelle parole che era andato cercando per scrivere, di mestiere. 

Nel frattempo Bruno è sempre là, un po’ ad aspettare che Pietro ritorni ogni volta, un po’ progredendo nella staticità del luogo: mette su famiglia, cerca di riavviare l’attività casearia dello zio: le crisi colgono chi resta e chi parte, si placano e si riaccendono, ma Bruno – seppur minato nell’animo – rassicura l’amico dicendo che la montagna non gli ha mai fatto del male. Quando, l’immacolato manto di una nevicata valdostana, soffoca tormenti e mette il punto alla storia. 

 

Nicole Bianchi
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