Calopresti: “Pasolini ti pone sull’abisso del controllo del racconto”

Per "Gli incontri di 8 1/2", rivista edita da Cinecittà, un incontro dedicato a Pasolini: l'intervento di Walter Siti, Mimmo Calopresti e Gianni Canova, moderatore e direttore della testata


CANNES – Dalla materia delle pagine di carta – quelle della rivista 8 ½ – Numeri, Visioni e Prospettive del Cinema Italiano – alla presenza fisica a Cannes: nello spazio dell’Italian Pavilion vive un panel speciale, Pasolini e il cinema, dedicato all’intellettuale, poeta, regista Pier Paolo Pasolini, nel centenario dalla nascita (5 marzo 1922), un approfondimento cominciato con Dacia Maraini e Walter Siti sulle colonne del bimestrale edito da Cinecittà, numero di maggio 2022 (www.8-mezzo.it). 

L’incontro è stato aperto dalle parole della presidente Chiara Sbarigia, che introducendo gli ospiti sul palco ringrazia Annalisa De Simone, consigliere d’amministrazione di Cinecittà, che ha coordinato l’evento. 

Se nell’intervista di Leonardo Colombati per 8 ½ , la signora Maraini ricorda la sua collaborazione e l’amicizia profonda con PPP, le riflessioni dello studioso, critico e scrittore, Walter Siti – raccolte da Andrea Di Consoli – sconfinano dallo scritto e arrivano al Festival, moderate da Gianni Canova – direttore editoriale della testata -, alla presenza anche di Mimmo Calopresti, autore che ha dedicato a Pasolini il doc Come si fa a non amare Pier Paolo Pasolini – Appunti per un film sull’immondezza (2005). 

“È l’anno di Fenoglio, Brancati, La Capria, oltre a Pasolini, tutti autori che hanno dato il proprio contributo al cinema. Pasolini, a cui non dedichiamo solo un ricordo apologetico, è uno di quelli che anche quando non sei d’accordo con lui ti obbliga a raffinare il tuo pensiero, cosa che dovrebbe fare sempre un intellettuale, e PPP ti sfida ad alto livello” per Canova, che apre l’incontro partendo dall’esordio cinematografico: “Accattone: era il ’61, l’avvio di un decennio straordinario per il cinema italiano”. 

“Lui è stato attratto dalla modernità. Nel ‘38, a 16 anni, scrive una sceneggiatura: questo dimostra come fosse sempre stato affascinato dalle novità. Quando scopre le borgate romane, negli Anni ’50, scopre la loro apertura alle novità, i ‘de vita’ riferito ai ragazzi era infatti una formula per indicare qualcosa di ‘molto nuovo’. Rispetto ad Accattone, ho l’impressione che il suo cinema sia il proseguimento della poesia, fatta con altri mezzi. In quegli anni è in un impasse poetico e ideologico, ha perso la metrica e ha perso la fede nel marxismo. E, dal punto di vista psicologico, per lui ricorre la parola ‘rabbia’. Così, in quel momento trova nel cinema la possibilità di avere un mezzo con cui pensa di poter catturare più realtà che con le parole: infatti, parla di una macchina che, non inutilmente, si chiama proprio ‘da presa’. Il cinema è un modo di fare poesia con un mezzo più potente”, spiega Siti. 

“Pasolini si differenzia dagli altri cineasti per la componente figurativa, i suoi film attraversano la Storia dell’Arte”, ricorda Canova, che presenta una carrellata di immagini che mettono su doppio binario sequenze di film di Pasolini e opere pittoriche, così Mamma Roma vs Mantegna, La ricotta vs Rosso Fiorentino o Il Vangelo secondo Matteo vs Piero Della Francesca.“Dovrebbe farlo chiunque si occupa d’immagine, conoscere la pittura e sapere come la luce debba andare altre la poesia, facendo diventare poesia il cinema. Pasolini è capace di mettere la pittura in forma poetica nella forma cinema, così diventa innovativa. Lui, in fondo, era attratto da ciò che negava: anche nel cinema lo fa, ma partendo sempre dalla fonte”, per Mimmo Calopresti.

“Il mio stile è frontale, è giottesco. Uno stile ieratico”, sosteneva Pasolini, qui citato da Canova.  

“Infatti, anche i dialoghi sono sempre campo-contro campo. Lui ci prova a fare il semiologo: il cinema è lingua o linguaggio? Lui compie un errore nella Semiologia del cinema e Metz glielo fa notare: perché esista una lingua ci deve essere una doppia articolazione, mentre il cinema non fa fonemi, ma Pasolini sostiene li abbia – i cìnemi -, e che siano gli oggetti della realtà. Usa la prosa d’arte per la Letteratura mentre nel cinema gli interessa di più ciò che rompe quella prosa. Lui ha paura che il suo amore per la realtà sia scambiato per un amore piccolo borghese per la realtà, di cui ha invece un’idea sacrale: dunque, non può affrontarla in maniera realistica, ma col filtro della Pittura”, aggiunge Siti.

“Il cinema gli permette di far irrompere i corpi nello schermo, come nella vita: il rapporto con lo spettatore è immediato, diretto”, per Calopresti. 

E questo “Era scandaloso, allora!” fa presente Gianni Canova

“Penso ai suoi primo piani, al modo in cui li filmava: vedevi nello sguardo, nei dettagli, un rapporto d’amore verso le persone:”, continua il regista. “I corpi che lui mostra con forma di egotismo sono i proletari; mentre per i borghesi prende attori professionisti”, aggiunge Siti, riferendosi alla Mangano e alla Callas, per esempio. 

Spunto, questo, per ribadire come fosse: “irrisolto il suo rapporto con la borghesia, per lui una malattia e non una classe sociale. Subiva la patologia che ha combattuto per tutta la vita”, dice Canova.  

“L’idea degli ultimi è nobile ma poi ci porta a un livello apologetico, e i film perdono la complessità”, riflette Calopresti, che spiega: “tu come regista vai sulla barricata raccontando loro e quello che ha perso il nostro cinema è la complessità del racconto che, da Pasolini a Pietrangeli, c’è nella narrazione del personaggio, qualcosa di davvero importante: mentre adesso ci fermiamo a una specie di tratteggio”. 

Ma per Siti, “Pasolini ha delle difficoltà a raccontare il divenire delle psicologie del tempo: lui vuole dominare il tempo”. Anche se “nel cinema il tempo non esiste, per cui, per lui, diventa lo strumento perfetto”, fa notare ancora l’autore cinematografico. 

“Ho l’impressione che Pasolini faccia fatica ad abbandonare se stesso per donarsi agli altri: se pensiamo al cinema, solo i primi due film e Uccellacci… sono scritture sue. Tra le varie cose, credo si sia rifiutato anche di capire la sua omosessualità: non aveva voglia di capire troppo. Non voleva parlarne perché è natura, e non cultura. E sulla natura non c’è nulla da dire. Così come ha taciuto sulle dinamiche del cinema o sui rapporti amorosi”, specifica lo studioso. 

Sull’amore culturale e le perplessità verso Pasolini, Canova sollecita e Calopresti risponde senza esitare: “Comizi d’amore è esplosivo per il racconto della società: adesso facciamo molti sforzi per raccontare il Paese, ed è qualcosa che lui riusciva a fare. Lì è incredibile, riesce a essere dentro il film, capacità che hanno in pochissimi, e che per un regista significa ‘essere il film’. L’etica del rapporto con gli altri è importante. Mentre, sulla questione politica non mi convince molto: entra, esce, se ne va; ha avuto la fortuna di poter essere libero ma qualche volta è come se si castrasse dalla possibilità di avere una posizione politica forte”. 

“Si immagina come un rivoluzionario ma si immagina come l’unico al mondo: contraddizione questa del marxismo, che credo non abbia letto mai”, afferma Siti. 

Se il panel ha aperto partendo dal principio della storia cinematografica di Pier Paolo Pasolini, a chiosare Canova chiede un pensiero sul finale della sua carriera cinematografica, Salò o le 120 giornate di Sodoma del ’75 (anno, poi, in cui trova la morte): il critico di 8 ½ riconnette il discorso anche alla Storia dell’Arte, riportando alla mente collettiva che “tutti i dipinti della villa sono di Arte Contemporanea, così arreda l’inferno”. E, su quest’ultima opera pasoliniana per il grande schermo, Calopresti ammette essere stata per lui: “La cosa più difficile di Pasolini da affrontare. Non riuscivo a trovare il bandolo, finché non ho letto una sua intervista in cui lo spiega: era consapevole di avere in testa qualcosa di eccezionale. Pasolini andava a caccia dell’ordine e in Salò lo cercava come se per qualche aspetto fosse l’opera finale, come se oltre quello non ci potesse essere altro. Pasolini ti pone sull’abisso del controllo del racconto. È la fine di fare cinema e la fine della vita”. È “un film interlocutorio, dove si arriva a una strada senza uscita: per lui, da lì in poi, sarebbe stato possibile solo aprire un’altra via”.

Il panel Pasolini e il cinema resta disponibile per il pubblico sul sito www.italianpavilion.it

n/b
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