‘Leila’s Brothers’, i nuovi Malavoglia arrivano dall’Iran

Presentato in concorso al Festival di Cannes, il film del giovane regista iraniano Saeed Roustaee è un’epopea familiare inserita alla perfezione nel difficile contesto sociale di un Iran piegato dalla


CANNES – “Per noi ogni giorno è un giorno piovoso”: questa citazione forse non diventerà iconica coma la sua speculare e opposta “non può piovere per sempre”, proveniente dal cult Il corvo, ma certamente lascia un segno negli spettatori che hanno visto, per primi a Cannes, Leila’s Brothers, l’epopea familiare targata dal regista iraniano Saeed Roustaee.

Appena 32enne, eppure già con altri due film all’attivo, l’autore porta in concorso a Cannes un’opera a dir poco mastodontica per la sua capacità di unire il dramma di una famiglia povera di Teheran con la politica, la società e la cultura dell’intero paese. Già guardando i primi meravigliosi quadri collettivi, magnificamente fotografati, in cui il regista mette in scena decine se non centinaia di figuranti, si ha la sensazione di trovarsi davanti a film con forti ambizioni, un kolossal del cinema sociale mediorientale. Una sensazione che vacilla in alcune delle scene più faticose e dialogate, ma che poi torna prepotentemente nel potenza visiva e concettuale di alcune scene nella seconda parte del film.

“Volevo dare una panoramica di una intera famiglia – dichiara Saeed Roustaee – e raccontare la loro storia dal giusto punto di vista e con la giusta struttura narrativa. Non è facile fare un film in Iran, ci sono molte restrizioni ed è davvero costoso. Alla fine delle riprese, il costo del film era raddoppiato a causa dell’inflazione (n.d.r. tematica centrale all’interno del film). Per questo molti film vengono girati in un’unica location, una casa per esempio. Ma nonostante ciò volevo girare in Iran, anche se temevo che il film venisse censurato”.

La famiglia di Leila, donna iraniana quarantenne, è composta da una madre discreta, da un anziano, burbero e analfabeta padre e da quattro fratelli adulti, ognuno dal carattere molto diverso dall’altro. Tutti condividono, però, la stessa difficoltà economica e la pressione schiacciante dei debiti, che aumentano quando Alireza, uno dei quattro, perde il proprio lavoro alla fabbrica, dopo un anno senza salario. All’interno del gruppo familiare ci sono continui scontri legati alla loro situazione economica, che diventano intollerabili quando Leila escogita un piano per acquistare un negozio che permetterebbe loro di sconfiggere la povertà. Peccato che per farlo, i fratelli abbiano bisogno delle 40 monete d’oro che il padre vuole donare durante una cerimonia matrimoniale per acquisire il diritto di diventare il nuovo patriarca del clan, un onore che aspetta da tutta la vita.

Le tensioni tra i fratelli, tra i quali Leila spicca per forza decisionale e lungimiranza, e gli scontri generazionali con il padre iniziano dunque ad accrescersi in una escalation drammatica che ricorda vagamente le sensazioni restituite da Giovanni Verga nel suo capolavoro I Malavoglia: una famiglia vinta dal destino, dalla società e dalle proprie, sfortunate, scelte. Il Paese, infatti, è in preda a una crisi finanziaria senza precedenti che porta a un’inflazione fuori controllo. In questo contesto, le scelte contraddittorie e irrazionali dei vari componenti della famiglia porteranno solo conseguenze tragiche.

“Gli ultimi governi in Iran hanno fatto crollare la classe media del Paese. – spiega il regista – Molte persone si sono arricchite e tante altre sono scese sotto la soglia di povertà. La maggior parte delle famiglie stanno precipitando nella scala sociale, a causa di un’inflazione impazzita. Come si vede all’interno del film, ogni giorno ti alzi e scopri che la situazione sta andando sempre peggio”.

Centrale nella dinamica familiare, nella dinamica di scontro con il padre, sono i personaggi di Leila (Taraneh Alidoosti) e di suo fratello Alireza (Navid Mohammadzadeh), rappresentando due sorte di estremi. La donna è guidata da un forte spirito di indipendenza, desiderosa di lasciarsi alle spalle la greve eredità paterna, mentre l’uomo è sinceramente legato al padre e a quello che rappresenta. È dalla bocca di Alireza che vengono pronunciate le frasi più caustiche del film. Parole come “ho capito che crescere è smettere di desiderare” o “la felicità mi spaventa” rappresentano al meglio il tipo di sconforto e disperazione vissuta da questi personaggi in una società in cui l’apparenza e l’onore sono ancora fondamentali.

“Con la nuova forma presa dalla nostra società, grazie principalmente hai social network, c’è molta più trasparenza. – racconta il regista Roustaee – Le persone non possono più nascondere quello che hanno o che non hanno. I ricchi vedono i poveri e viceversa. Non ci sono segreti, ed è un po’ quello che succede nel film. Per questo ho deciso di girarlo in una casa di appena 100 metri quadri. Nonostante il mio direttore della fotografia dicesse che era troppo piccola, era esattamente quello che volevo. Non c’è nessuna privacy per i componenti della famiglia. Solo Leila ha una sua stanza, ma è quella in cui tengono il frigorifero. La società iraniana ormai è così, non puoi nasconderti. Infatti la cerimonia del matrimonio è completamente falsa, è tutta apparenza”.

In questa realtà c’è il personaggio di Leila, statuario nella sua tragica determinazione di donna in un mondo di uomini: “Se sei una donna in Iran, passi tutta la tua vita a combattere, dalla mattina alla sera, nella tua vita privata o in quella professionale. – racconta l’attrice Taraneh Alidoosti – Diventi una fuorilegge solo provando a sopravvivere. Le donne vogliono cambiare la loro situazione, ma la lotta è molto dura, le apparenze sono ancora troppo importanti, le donne non possono scegliere i proprio vestiti e devono sempre muoversi sul filo della legge. Per questo ho molta ammirazione per chi ha il coraggio di combattere per il cambiamento”.

Leila’s Brother è un film costruito con un maturità registica sorprendente, che si perde solo in alcune lungaggini della prima parte del film e in scene di dialogo davvero lunghe e ridondanti, che possono affaticare lo spettatore, soprattutto perché parliamo di un film di ben 165 minuti. “La prima versione del film durava più di tre ore, – afferma il regista – è stato molto difficile accorciarlo e non posso farlo più di così, anzi rimpiango alcune scene che ho dovuto tagliare. Il mio film precedente (n.d.r. Just 6.5, presentato a Venezia nel 2019) durava più di due ore ed è stato visto da più di 3 milioni di spettatori, un record per il mio Paese. Non ho ragioni di accorciarlo ancora di più, credo che le persone lo apprezzeranno così”. Da queste parole non si può che evincere la lucidità e la chiarezza di visione dell’autore, malgrado la giovane età. Qualità che, al netto di alcune criticità, appaiono evidenti dalla prima all’ultima inquadratura.

Carlo D'Acquisto
26 Maggio 2022

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