Toni Servillo, la muscolatura emotiva e il germe della verità

Una masterclass per raccontare il mestiere dell’attore secondo lui, con capitale riferimento al teatro e l’incontro col cinema, giunto tardi ma in maniera bella


TORINO – Toni Servillo ha incontrato la sala del Cinema Romano di Torino – la prima sala d’essai d’Italia, ha ricordato il direttore Steve della Casa, moderatore dell’incontro – protagonista di una della Masterclass dell’edizione numero 40 del TFF, seppur l’artista abbia preferito espressamente dare all’incontro il tono di una chiacchierata, di un racconto. 

Una folla strabordate fuori dal Cinema per l’accesso – gratuito e aperto a tutto il pubblico: è parso, a chi ha conquistato la poltroncina di velluto, un dono l’approdo lì, alla “lezione” di Servillo, che s’è offerto soprattutto concentrando le sue parole sul mestiere. “Non avrei immaginato di fare del cinema pur appartenendo ad una generazione che ha coltivato le passioni dello stesso e del teatro: credevo la mia fortuna si esaurisse lì. Il cinema è arrivato tardi ma in una maniera bella” riflessione a cui aggiunge un commento pragmatico: “piazzatevi da soli sul mercato, non aspettando. Mi sembra ancora un’avventura affascinante, nella quale sto con un piede di qua e uno di là: sono Tony a teatro e Servillo al cinema. Comunque, non ho mai considerato il teatro come un’anticamera per il successo cinematografico, ho sempre praticato in contemporanea entrambe le discipline”. 

Toni Servillo ha portato la sala in ascolto dentro il salotto della sua casa di bambino o poco più, raccontando come “il rappresentare mi riguardava e mi incantava: come famiglia avevamo l’abitudine di sederci la sera a guardare le commedie di Eduardo, spesso addormentandoci sbavando con la testa sulla spalliera del divano. Una sera ricordo chiaramente di essermi guardato intorno e aver avvertito una ferita per la prossimità tra la vita vera e la vita rappresentata”, dice l’artista riferendosi alla vicinanza che riconosceva tra la scena e i profili omologhi che rintracciava in casa. Parlando di sé all’indietro nel tempo si disegna come “un ragazzo che sentiva la necessità per risolvere un problema identitario, decidendo di far parte di un gruppo che sceglie di rappresentare con il teatro, una risposta a una crisi d’identità che coincide con una fase post puberale”. 

Dal teatro al cinema, e anche pensando “solo” a quest’ultimo, Toni Servillo è un versatile: è stato Andreotti e Jep Gambardella, perfino il Papa, ma, sempre parlando del mestiere d’attore, definisce chi lo pratica “dei vasi vuoti che si riempiono e si svuotano. Rifuggo la retorica, come quando ti domandano: ‘come sei entrato dentro Pirandello?’ E come sono entrato? ‘Dalla porta?’. C’è molta leggenda!”. Per rapportarsi al personaggio, “si cerca di governare un tumulto che se non ti possiede non fai questo mestiere. Una volta che ti sei perso dentro un personaggio ritrovi te stesso e il personaggio eccolo là. Io rifuggo dagli attori che dicono: io sono Amleto. La mia relazione con i personaggi all’inizio è di estrema timidezza, li guardo dal basso all’alto, perché devi fare uno sforzo per raggiungerli, uno sforzo in salita. La distanza iniziale poi si riduce e l’ideale vorrebbe un centro per cui le energie della complessità e le tue dovrebbero incontrarsi allo zenit. Quando ho affrontato Il Divo, illuminanti sono state delle pagine di Manganelli, in cui ricordava di essere sprofondato tra il curiale e il vedovile: parole per me illuminanti”.

Certo, ciascuno poi ha il proprio metodo, e il suo – rispetto ai copioni – è “l’abitudine di conservali, ora: quelli degli inizi no, ero talmente liberato che alla fine strappavo la scena. Io cerco di conoscere molto bene la sceneggiatura, tutelare il mio lavoro da attore sapendo quale sia la mia posizione, facendo distinzione tra personaggio e ruolo. Col personaggio hai una relazione intima e il ruolo è ciò che fai e ricevi anche quando non sei in scena, in relazione agli altri personaggi. Bisogna avere consapevolezza del ruolo. Io mi riscrivo le sceneggiature in modo che ci sia automatismo nell’introiettare il personaggio per poi liberarlo. Quando si dice ‘azione’ è come se la vita dicesse: ‘tocca a te’, avere quindi una preparazione automatica, una muscolatura emotiva, permette di sprigionare un’energia che contiene il germe di verità più autentico”.

C’è il pubblico poi, e c’è il regista e, nell’ordine, Servillo dice che: “per andare in scena devo avere una difficoltà, che è quella di affrontare il pubblico su un testo; il pubblico delega un attore a vivere al posto proprio recitando un testo, questo è ciò che deve il produrre il teatro, con un impatto che guardi alla vita e non alla letteratura: il cinema si compie, il teatro si svolge, con un inizio, una parte centrale, un acme e un epilogo, altrimenti è una trappola – come direbbe Amleto – che non dice nulla che ti riguardi. Penso un attore possa illuminare una porzione di un film ma chi mette i contenuti profondi nel cuore del protagonista è il regista, mentre a teatro lo fa l’attore”.

E poi c’è la musica, arte non sconosciuta a Toni Servillo: “Ho avuto la fortuna di fare come regista una dozzina di opere liriche; ma ancora adesso – per rimanere in quell’ambito, quello che amo di più – la musica penso che per un attore definisca, soprattutto in palcoscenico, il ritmo il colore i canoni, dà la capacità di sapere dove essere collocati esattamente per trovare l’espressione più felice dentro un meccanismo drammaturgico. Leggo con piacere le autobiografie o gli appunti di grandi direttori d’orchestra perché meno piene di egocentrismo: gli attori dicono un sacco di fesserie per tenersi a galla”. 

Infine, sul finire dell’incontro, dalla platea giunge un’osservazione che tocca Servillo come un complimento, la sensazione per cui sembra sempre – in scena come sul grande schermo – si sappia accorgere degli altri, quelli con cui sta recitando:  “posso immaginare un po’ dipenda da quella ferita (di cui sopra) in cui ho sentito che il teatro fosse una questione che riguarda una comunità, allora lì cominci a togliere un po’ di narcisismo, di sterile amministrazione del talento. Poi in famiglia non c’erano attori, ma grandi spettatori sì: sentivo i molti zii scapoli raccontare di film e spettacoli, quindi dello stupore dell’essere spettatori. Credo un attore si metta a disposizione e si polverizzi, come scomporsi in micro cose che arrivano alla maggior parte di pubblico: l’ho imparato vedendo grandi attori recitare e provando per loro gratitudine”.

Nicole Bianchi
26 Novembre 2022

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