‘La lunga corsa’ dal carcere alla favola: unico titolo italiano in Concorso al TFF

Il film di Andrea Magnani, con Giovanni Calcagno e Adriano Tardiolo, presenti al TFF: l'eco de Il piccolo principe e di Pinocchio, una paternità putativa, un inno alla libertà dell'individuo


TORINO – “La libertà … il sole … un fiore” e poi la lamiera di ferro del cancello armato di un carcere che si chiude dietro le spalle. Il dentro e il fuori, la vita e le vite. 

Giacinto (Adriano Tardiolo, già Lazzaro Felice) nasce “dentro”, vent’anni fa ormai, atteso come una bambina, tanto che il suo nome floreale è stata la scelta su cui la mamma ricadde per compensare quel “Rosa” che aveva pensato per la sua creatura, identità che – in fondo – non rimarrà sospesa con il parto tra le sbarre del piccolo. Un padre, quello biologico, e un altro “padre”, il secondino Jack (Giovanni Calcagno), sempre lì, dentro quel “mondo” eccezionale ma estraneo al “fuori”, come estraneo è il “fuori” per Giacinto stesso, che perpetrerà di far in modo di ritornare sempre “dentro”, nel suo cosmo conosciuto, sicuro. 

Un dramma alla base ma un trattamento filmico delicato, quasi “in versi”, a momenti dall’essenza fumettistica – come nell’estetica della direttrice del carcere, Barbora Bobulova, che evoca colori e fattezze di un cartoon -, senza però mai perdere di realismo o di serietà, ma conferendo alla storia un tocco favolistico capace di raccontare le crudezze dell’esistenza con la morbidezza della poesia

La lunga corsa di Andrea Magnani (Easy – Un viaggio facile facile) è l’unico film italiano in Concorso al 40° TFF, prodotto da Pilgrim Film, Bartleby film, Fresh Production Group con Rai Cinema, una co-produzione con l’Ucraina: “l’idea nasce da un articolo che lessi una ventina d’anni fa, correlato all’Associazione Antigone, dedicata ai diritti dei detenuti: scriveva dei bambini che crescono in carcere. La notizia per me era scioccante, capivo il perché profondo della legge, il mantenere una connessione con la mamma, ma ho preso spunto per costruire una storia che diventasse metafora della storia di tutti noi, che possiamo trovarci ingabbiati per la paura di affrontare la vita e ho cercato di farlo attraverso quella di Giacinto, che nel carcere trova un grembo, perché nel mondo fuori non si adatta, come l’esterno a lui. Un registro da favola era l’unico modo per arrivare alla surrealtà della realtà, per cui serviva un personaggio puro e innocente e Adriano Tardiolo aveva quello sguardo, come anche in Lazzaro Felice (suo film da debuttante, di Alice Rohrwacher)”.  

Per Adriano, “il personaggio è frutto del luogo, del carcere, stranamente un  luogo di protezione. È un personaggio senza sovrastrutture, atipico. Senza moralismo: è un buono in un posto duro. È un personaggio che fa un po’ da specchio per gli altri. Mentre all’inizio non ci avevo percepito dentro figure di riferimento, vedendo il film ho intuito una sorta di Pinocchio”. 

Così come a Geppetto ha pensato Giovanni Calcagno, che ha riflettuto sulla questione fiaba indicandone una di riferimento: “Il piccolo principe. Ma anche Pinocchio sì, e poi ho pensato al rapporto tra San Giuseppe e Gesù, l’esempio più importante di come un padre putativo sia portatore di luce, di libertà. Le simbologie delle favole riportano a un mondo interiore: Il resto è dentro era un possibile titolo del film, per me riflesso di un luogo di profondità”. 

Precisa Magnani, a proposito della fiaba: “non ho avuto riferimenti fiabeschi  in sceneggiatura, ma è sulla base del registro dei personaggi che nasce la fiaba”. Un autore che, anche nell’architettura visiva mette in scena una metafora e non solo un’estetica, infatti: “Ho voluto dare alla simmetria un valore dirimente, cercando di dividere il mondo dentro/fuori, come un bianco/nero, ponendo il personaggio al centro. Il senso della geometria c’è per questa metafora e per rendere il protagonista nella scatola mentale in cui è chiuso”. 

Il protagonista, che è certamente Giacinto, ma non possibile se non avesse accanto a sé Jack: Calcagno racconta di essersi “molto chiesto durante la lavorazione a cosa serva un padre, pensando anche a mio padre, perso quando ero molto più giovane; e Jack è portatore di un’educazione ortodossa, ma la cosa più importante è che riceve la possibilità di custodire qualcosa di puro, un atto che intuiamo non fare invece verso la figlia. Jack è un leone da gabbia, che il cucciolo che cresce rompe”.  Dopodiché Jack possiede “la marzialità e la retorica del ruolo, che mi hanno molto instradato: esprimere sentimenti in pose contrastanti, in una gabbia, è quello che avviene nel film, sentiamo la libertà lì dove manca e l’amore lì dove vorrebbe essere cancellato”.  

“Mi piaceva puntare un riflettore sulle persone normali, che a volte al cinema diventano speciali perché gli si accende addosso un riflettore. Sì, cerco l’approfondimento che però alleggerisca: è lo scarto tra quello che siamo e come ci percepiscono che restituisce la commedia e mi viene abbastanza naturale camminare su questa sottile linea”. 

La lunga corsa sarà distribuito nelle sale italiane nella primavera 2023 daTucker Film.

L’approfondimento video: guarda qui

Nicole Bianchi
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