Da Alidoosti a Panahi, la resistenza dei cineasti iraniani

L’arresto di Taraneh Alidoosti è solo l'ultimo atto di una catena di repressione da parte del regime di Teheran. Il caso di Jafar Panahi. Le proteste di Ghobadi e Ali Abbasi


L’arresto della celebre attrice iraniana Taraneh Alidoosti, star de Il cliente, per un post su Instagram in cui esprimeva solidarietà con il primo uomo giustiziato in seguito alle proteste in corso, è solo l’ultimo capitolo di una lunga e drammatica sequenza di atti giudiziari, intimidazioni, vere e proprie condanne ai danni dei cineasti e degli intellettuali che hanno scelto di restare in Iran per criticarlo dal suo interno.

Trentotto anni, figlia di un ex calciatore e di una scultrice, Taraneh Alidoosti – che presto vedremo nel notevolissimo Leila e i suoi fratelli di Saaed Roustayi distribuito in Italia da I Wonder Pictures, è una delle rappresentanti più impegnate del mondo dello spettacolo iraniano. Un mese fa aveva dichiarato di essere pronta a “pagare qualsiasi prezzo” pur di restare nel proprio Paese e a dare sostegno alle proteste in corso. Alidoosti ha lavorato con alcuni dei più importanti autori iraniani, come lo scomparso Abbas Kiarostami (Shirin, 2016) e appunto Asghar Farhadi che l’ha diretta prima in About Elly (2009) e quindi nel Cliente, arrivato all’Oscar nel 2017 come miglior film straniero.

Molti cineasti iraniani si sono ritrovati fuori dal carcere di Evin a Teheran per chiedere la liberazione di Alidoosti. E sono stati pubblicati sui social appelli per la sua scarcerazione – chiesta anche dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani – da parte del Festival di Cannes e del gruppo inglese Pet Shop Boys.

Altre due famose attrici, Hengameh Ghaziani e Katayoun Riahi, sono state arrestate a fine novembre per aver appoggiato il movimento rivoluzionario. Intanto si diffonde sempre più il gesto di togliersi il velo come segno di protesta. In un breve video l’attrice e regista Soheila Golestani cammina in un parco con la testa scoperta, si ferma ai piedi di una scalinata al centro dell’inquadratura e fissa l’obiettivo. A lei si uniscono altre otto donne e quattro uomini, che assumono la stessa posa, senza dire una parola. L’attrice ha pubblicato il video su Instagram scrivendo: “Lo spettacolo è finito e la verità viene rivelata. I nostri veri eroi sono quelli senza nome. Non rimettiamo in evidenza i nostri errori. Ancora una volta proviamo e impariamo… Ci sono innumerevoli modi e molta speranza in un nuovo giorno”.

Un eroe della resistenza iraniana è senza dubbio Jafar Panahi – Premio speciale della giuria alla scorsa Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia con Gli orsi non esistono. Panahi, in carcere dall’11 luglio di quest’anno con l’accusa di essere un dissidente politico, ha lasciato molte “sedie vuote” nei vari festival internazionali, dove ha portato film come Closed Curtain, Taxi Teheran e Tre volti. Da ormai oltre un decennio continua coraggiosamente a realizzare il suo cinema contro un divieto ufficiale delle autorità che gli hanno proibito sia di fare cinema che di viaggiare all’estero. Il cineasta 62enne (già Leone d’Oro nel 2000 con Il cerchio) mette in scena proprio la sua condizione di autore “clandestino”, una figura che percorre tutta la fase attuale della sua opera: il suo è un cinema al contempo autobiografico e politico, che mescola realtà e finzione, per denunciare in modo assai poco criptico, ma sempre con autoironia, la persecuzione di cui sono oggetto i cineasti iraniani e assurge così a un valore universale di rappresentazione. Nel suo film più recente, Gli orsi non esistono appunto, il regista interpreta se stesso mentre, da un villaggio rurale a pochi chilometri dal confine con la Turchia, dirige a distanza un film.

Per lui la Mostra di Venezia ha organizzato un flash mob sul red carpet, prima della proiezione del film in concorso, come gesto di solidarietà nei confronti di Panahi e degli altri registi dissidenti incarcerati. Davanti ai fotografi si sono schierati un centinaio di persone, inclusa l’intera giuria guidata da Julianne Moore, che ha portato un cartello con i volti di Panahi e Mohammad Rasoulof. Ed è stato proprio per esprimere solidarietà nei confronti di Rasoulof e del collega Mostafa Al-e Ahmad e protestare contro la loro detenzione avvenuta a causa di un post relativo al crollo di un edificio nella città di Abadan, che Panahi è stato arrestato la scorsa estate.

Gli appelli internazionali e i gesti dimostrativi si sono susseguiti. Non solo da parte dei grandi festival: Berlino, Cannes e Venezia. Dalla Francia si è allargata in Europa la campagna #HairForFreedom, in cui attrici e cantanti si tagliano una ciocca di capelli in solidarietà alle donne iraniane in lotta e per ricordare la 22enne Mahsa Amini, vittima della brutalità perché non indossava il velo in modo “corretto”. Le prime che hanno aderito alla campagna sono state Juliette Binoche, Marion Cotillard, Isabelle Huppert, Charlotte Gainsbourg, Julie Gayet, Charlotte Rampling. A loro si sono presto aggiunte l’italiana Claudia Gerini e la spagnola Rocío Muñoz Morales, dietro lo slogan divenuto manifesto internazionale della protesta: “Donna, vita e libertà”.

Anche il Premio Oscar Asghar Farhadi ha pubblicato un video su Instagram chiedendo al mondo di unirsi alla solidarietà verso i manifestanti. È stata una mossa insolita da parte del regista, che fino ad ora si è spostato liberamente dentro e fuori dell’Iran. Intanto un gruppo di professionisti del cinema iraniano ha scritto una lettera aperta denunciando le azioni delle autorità. Tra i firmatari figurano nomi eccellenti come i registi Ali Abbasi (Holy Spider), l’artista e cineasta Shirin Neshat (Land of Dreams) e Bahman Ghobadi, che ha scritto ai membri dell’Academy di cui anche lui fa parte, oltre alla vincitrice come miglior attrice a Cannes sempre per Holy Spider Zar Amir Ebrahimi. Bisogna sottolineare che la maggior parte di loro vive all’estero: Ali Abbasi ad esempio è naturalizzato danese. Nel suo thriller una giornalista indaga su una serie di omicidi compiuti in una città santa da un serial killer che si accanisce contro le prostitute: “Quello che sta succedendo in Iran – ha affermato Abassi – è la conseguenza di ciò che è accaduto nel Paese negli ultimi cinquant’anni. Non si tratta più un movimento di protesta, ma di una rivoluzione, e penso che cambierà il volto di quella regione per sempre”. Abbasi, che si è trasferito in Europa venti anni fa, parla di Holy Spider come di “un film su una società killer, sulla misoginia profondamente radicata all’interno dell’Iran, che non è specificamente religiosa o politica ma culturale”. 

Cristiana Paternò
19 Dicembre 2022

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