Ava Gardner, 100 anni la Vigilia di Natale

Un secolo dalla nascita della diva dagli occhi smeraldo: l’infanzia modesta, la luce di Hollywood, il “periodo italiano”. I compagni di set, da Burt Lancaster a Clarke Gable


La vigilia di Natale del 1922 Ava Virginia Gardner veniva alla luce – ultima di sette figli – nella Carolina del Nord: con il suo avvento nel mondo, anche la nascita di un’interprete che l’American Film Institute ha poi inserito al 25mo posto tra le più grandi star della Storia del Cinema

Le sue erano origini britanniche e l’estrazione della famiglia era modesta, con i genitori agricoltori: non certo dunque una storia d’eredità artistica la sua, a riprova che il talento non sia “figlio di” ma, quando vero, non guardi in faccia a natali o genie, anche se – a onor del vero – quello della Gardner era un po’ indorato dal personale statuario e dallo sguardo tigrino, ma non asseribile a quello di attrici come Liz Taylor o Ingrid Bergman, di naturale inclinazione alla recitazione pura. 

Una posa fotografica, un’immagine da collocare nel negozio newyorkese del cognato: qualcuno la nota e questo qualcuno – Barry Duhan, un impiegato – aveva gli occhi della MGM, da lì un primo provino per lei e poi… Hollywood. La faticosa e disagiata infanzia, l’adolescenza durante cui, per sua ammissione, Ava Gardner lesse solo due libri – la Bibbia e Via col vento -, ma da quello scatto in vetrina in poi comincia a sentire odor di riscatto. La sua pronuncia di provincia era degna delle risate più becere, ma il fisico prorompente, la cromia e il magnetismo dello sguardo, è storico ciò che fecero affermare a Louis Mayer, potente e burbero vertice della Metro Goldwin Mayer: “Non sa recitare. Non sa parlare. Ma è il più bell’animale del mondo. Arruolatela!”. 

Non è il primo film che l’accredita, ma certamente quello che la battezza: I gangsters (1946) di Robert Siodmak, in cui la Gardner recita accanto all’esordiente Burt Lancaster. Nonostante quest’ultimo non fosse ancora un divo, la prova di lei fu però notata e da lì in poi i divi di cui sarebbe stata compagna di scena non sono mancati: Clark Gable ne I trafficanti(1947), Gregory Peck ne Il grande peccatore (1949), James Mason in I marciapiedi di New York (1949). “È la donna più affascinante e aggressiva che abbia mai incontrato, una donna che può anche farti impazzire, al punto che devi lasciarla per forza. E, prima di lasciarla, devi anche picchiarla per bene. Una donna selvaggia, che non sai mai quello che vuole. Le dai tenerezza e diventa selvaggia. Le rispondi con la violenza e diventa dolce come una gattina. La cerchi e lei scappa. Giura di amarti ed è pronta a tradirti. Mai vista una donna che ha tradito tanto sia i suoi mariti che gli amanti. I suoi splendidi occhi di tigre hanno fatto e continuano a fare stragi”, dirà Gable di lei. 

La bellissima Ava non mancò in matrimoni e affini: forse il più luccicante, almeno in termini mediatici, fu il terzo, con Frank Sinatra, nel ’51, anche se non strumentalizzò mai la sua bellezza, non ne fece merce di scambio, troppo era il valore del suo orgoglio e della sua indipendenza. Se l’incanto estetico era evidente, non da meno la personalità si faceva notare e il grande schermo, alla metà del secolo scorso, la iconizza a femme fatale in pellicole come Voglio essere tua (1951) di Robert Stevenson con Robert Mitchum; Pandora (1951) di Albert Lewin ancora insieme a James Mason; e Show Boat (1951) di George Sidney. 

Nell’approssimarsi alla sua prima e unica candidatura all’Oscar come Miglior Attrice, nel ’53 per Mogambo di John Ford, accanto a Gable e Grace Kelly, l’anno precedente fu apprezzata nel film dall’omonimo racconto di Ernest Hemingway, Le nevi del Kilimangiaro. Sul set del film scopre di essere incinta, ma lei quel bimbo non lo vuole: non avverte l’inclinazione alla maternità, non vuole rinunciare alla libertà e non vuole intermittenze nella carriera sfolgorante. Nasconde così a Sinatra la gravidanza e abortisce di nascosto a Londra; alla scoperta, lui dà di matto, le punta una pistola contro, e dà sfogo alla rabbia sparando al materasso su cui la Gardner era distesa.

Un’esistenza stellare – almeno parzialmente o in apparenza -, ma non meno turbolenta, in cui non è mancata l’Italia, dove si trasferì proprio nel ‘53, subentrando a Rita Hayworth nel ruolo di Maria Vargas ne La contessa scalza di Joseph L. Mankiewicz, accanto a Humphrey Bogart, Rossano Brazzi e Valentina Cortese. Italia che per la Gardner è stata anche sinonimo di Walter Chari, dapprima collega attore e poi compagno per un periodo della vita, una coppia di forte interesse per la stampa rosa del tempo, come fu anche per la storia con il torero Luis Miguel Dominguín. Una trama amorosa degna di un film, perché la Gardner intreccia erotismo e romanticismo con Chiari in quanto entrambi reduci da un colpo di filmine “altrui”, quello dei reciproci amori precedenti: per lui Lucia Bosé, per lei il torero Dominguín appunto. “Non ho guadagnato nulla di buono dai miei amori se non anni di psicanalisi”, dirà l’attrice.

Se la bellezza è stata per Ava Gardner una naturale carta vincente, la stessa ha anzitempo cominciato la sua sfioritura, facilitata anche da una condotta poco lineare, non estranea all’alcolismo: degna di essere una nota di colore, la sbronza memorabile condivisa con Winston Churchill; non da meno fu l’episodio della cacciata dall’Hotel Ritz di Madrid perché, proprio dopo aver bevuto troppo, lei fece pipì nella hall. Nonostante queste ombre, fu un maestro come John Huston a saperla ancora far brillare, donandole ruoli in cui rasenta l’eccellenza, come ne La notte dell’iguana (1964), dall’omonimo dramma di Tennessee Williams: la Gardner, grazie al ruolo di Maxine Faulk, fu candidatura al Golden Globe; poi ne La Bibbia (1966) interpretò la biblica Sara. L’attrice diede ulteriore prova della proprie abilità anche nel kolossal 55 giorni a Pechino (1963), accanto a David Niven, e in Sette giorni a maggio (1964) di John Frankenheimer, ancora con Lancaster.

Come “tornando sui suoi passi” natali, Gardner nel ‘68 lascia Madrid per trasferirsi definitivamente a Londra, luogo di una vita più ritirata – nel quartiere di Kensington, con un cagnolino e un domestico -, lontana da Hollywood, peraltro in una fase di dinamico rinnovamento, man mano distante dal divismo di cui lei era (stata) icona. Non finisce però così la sua carriera, infatti nei primi Anni ‘70 è ancora nel cast di film di successo: diretta da John Huston ne L’uomo dai 7 capestri (1972) accanto a Paul Newman e Jacqueline Bisset; recitò poi in Cassandra Crossing (1976) di George Pan Cosmatos, tra cui interprete fu anche Sophia Loren; ancora, George Cukor tornò a dirigerla ne Il giardino della felicità( 1976), con Elizabeth Taylor e Jane Fonda

La sua ultima volta al cinema data 1982: Regina Roma, regia di Jean-Yves Prate; e infine, in ultimo, la sua apparizione estrema fu in televisione, nel film tv Maggie (1986). 

Una vita avvincente, di riscatto, di luce, di opacità, di fascino e di montagne russe, soprattutto personali: Ava Gardner si spegne a Londra nel 1990, per le conseguenze di una polmonite e di un ictus che le paralizzava il braccio sinistro, aveva 67 anni. Lasciò la vita terrena – sempre con la presenza Oltreoceano di Sinatra, che non l’ha mai lasciata sola -, poco dopo aver ultimato il suo libro autobiografico: Ava Gardner: The Secret Conversations (pubblicato negli Stati Uniti nel luglio 2013). 

Il 24 dicembre 2022, dopo un secolo da quando tutta questa storia è nata, la stella di Ava Gardner non brilla di meno e non fa sentire meno viva la sua zampata vitale nella Storia del Divismo e del Cinema

Nicole Bianchi
23 Dicembre 2022

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