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“Un fortino”. Così Federico Fellini descrive il bar di Cinecittà in questa scena del suo Intervista, il film girato nel 1987 tra i viali alberati di via Tuscolana. Il vero centro nevralgico degli Studi, dove passavi per forza almeno una volta nella giornata, e dove prendere un cappuccino era 'un lavoro'. Ma soprattutto un luogo dove potevi trovare di tutto, assistendo a scene ancor più incredibili che sul set. Sono passati 36 anni, e quel ragazzo che si intravede alle spalle del Maestro riminese è ancora lì, impeccabile, dietro al bancone: si chiama Andrea Chiodi, è una delle colonne portanti della fabbrica dei sogni, tra le tante che ne custodiscono gelosamente la magia. E la memoria.

“Quel giorno al banco eravamo quattro o cinque, Fellini aveva voluto me perché ero il più piccolo, avevo sedici o diciassette anni: a quindici ero entrato a Cinecittà, nel 1985 – racconta Andrea. Nel bar c’era sempre una gran confusione, un viavài di gente mascherata… E lì fuori decine e decine di persone che aspettavano: era il vero ufficio di collocamento del cinema, quando serviva un manovale o una comparsa all’ultimo minuto venivano a chiamarli lì’ e si sentiva ‘vieni! E quanto me dai?’ E contrattavano al momento, rimediavano subito la giornata di lavoro”. I ricordi e gli aneddoti che tornano in mente ad Andrea sono senza fine, in 38 anni al bar di Cinecittà. “Per un motivo o un altro mi divertivo sempre, la sera i miei amici mi chiedevano tutto, erano curiosissimi di sapere chi avevo visto. Una mattina, mentre arrivavo, vedo lì davanti una persona con mezzo corpo sotto una macchina, uscivano solo i piedi, e m’ha incuriosito questa cosa. Quindi mi sono fermato a guardare, e quando è uscito fuori era Benigni, giacca e cravatta, che si era sdraiato lì sotto per dare un pezzo di cornetto a un gattino. Oppure ai tempi di Buona Domenica, quando un giorno Fiorello entrò addirittura dentro il bar con la moto!… Perché noi gli raccontavamo che tanti anni prima entravano col cavallo a Cinecittà per girare i film western… Allora lui ha preso, c’era la doppia porta, è entrato e poi è uscito dal bar dicendo: ‘lo voglio fare anch’io, tiè, col mio cavallo moderno!'"

I racconti di Andrea sul bar di Cinecittà fanno il paio con quelli dello stesso Fellini, che torna a riparlarne ammaliato sulle pagine di un libro, solo un anno dopo aver girato quella scena:  come a rimarcare il fascino irresistibile che quel posto incredibile esercitava su di lui. “Ci potevi incontrare “cardinali, sanculotti, SS, trogloditi, lucertoloni alti due metri, odalische – scrive Fellini in Un regista a Cinecittà - bere tazzine di caffè, mangiare pizzette, ritirare buste di plastica piene di panini e ficcarle come ho visto con i miei occhi nel marsupio d’un grande canguro, con l’aiuto di Richard Burton che affettuosamente spiegava a Elizabeth Taylor, ammirata più che intimidita dal gigantesco animale, come quel canguro fosse sbagliato, perché le sue orecchie erano troppo avanti sulla testa. E lei, nel suo bellissimo costume da Cleopatra, pieno di gemme e piume, si guardava attorno con i suoi stupendi occhi viola, come per cercare il colpevole di un così grossolano errore. Quando facevo lo sceneggiatore - continua il regista romagnolo - passavo ore intere in un angoletto di quel bar degno delle allucinazioni di Hieronymus Bosch, a riscrivere freneticamente i dialoghi (…). Con la portatile sulle ginocchia, dietro un tavolinetto sudicio di avanzi di ogni genere, nel frastuono vociante delle ordinazioni, tra le urla dei capo ciurma che venivano a riprendersi i gruppi di comparse stravaccate sulle sedie o riverse sul bancone, inventavo nuove battute, provandole io stesso a mezza voce, attorniato da quattro o cinque mascalzoni che intonavano lo stesso lamento, invitandomi a buttar giù una battuta anche per loro, e a raccomandare al regista che gliela facesse dire”. (Federico Fellini, Un regista a Cinecittà, Mondadori editore, 1988)

 

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